Sguardi su Quasimodo

di Sandro Marano

 

«Sotto la tenera luna già i tuoi colli,  

lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse  

e turchine si muovono leggere.  

Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio  

perde colore, e ogni ora s’allontana,  

e il gabbiano s’infuria sulle spiagge  

derelitte. Gli amanti vanno lieti  

nell’aria di settembre, i loro gesti  

accompagnano ombre di parole  

che conosci. Non hanno pietà; e tu  

tenuta dalla terra, che lamenti?  

Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto  

forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento.

Remoti i morti e più ancora i vivi,   

i miei compagni vili e taciturni.»

 

Questa splendida poesia di Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) s’intitola Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto. Il monumento sepolcrale di Ilaria, prima moglie di Paolo Guinigi, signore di Lucca, si trova nella cattedrale di Lucca e fu scolpito da Jacopo della Quercia nell’autunno del medioevo tra il 1406 e il 1407. Rappresenta la donna supina nel letto col suo volto dolce e sereno. Il poeta sosta davanti al suo sarcofago e l’immagina dolente per l’oblio e l’abbandono degli uomini e ritrova nella sua solitudine la propria.

«La vita è solitudine, radicale solitudine», afferma nel suo saggio, Intorno a Galilei, il filosofo spagnolo Ortega y Gasset. E prosegue: «E tuttavia, o forse proprio per questo motivo, nella vita c’è un’ansia indicibile di compagnia, di società, di convivenza.  […] Tutta una serie di dimensioni della nostra vita è composta da fervidi tentativi di rompere la solitudine in cui ci troviamo e di fonderci in un essere comune con gli altri. Fra i tentativi, quello più radicale, e più famoso per evadere dalla nostra solitudine, è l’amore».

Solitudine e amore sono i due poli della condizione umana. In Vento a Tindari, una delle più belle poesie della sua prima raccolta Acque e terre pubblicata nel 1930, il poeta siciliano scrive:

«e ogni amore è schermo alla tristezza».

Concetto ribadito nella brevissima poesia Ed è subito sera, che apre l’omonima raccolta del 1942 e chiude la prima e più pregevole fase della sua poesia nella quale confluiscono le raccolte degli anni Trenta e la sezione delle Nuove poesie:

 

«Ognuno sta solo sul cuor della terra  

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera». 

 

Le Nuove poesie, insieme alla magnifica traduzione dei Lirici greci che esce nel 1940, rappresentano, a nostro avviso, il punto più alto della poesia di Quasimodo. Circa la traduzione dei Lirici greci va rilevato tra l’altro che «rompe con il linguaggio ossificato delle traduzioni accademiche» (Cesare Milanese) ed inaugura uno stile in cui «il poetare si riflette sul tradurre e non già il tradurre sul poetare» (Manara Valgimigli).

Com’è noto, Quasimodo è considerato (insieme a Gatto e all’Ungaretti di Sentimento del tempo) uno dei rappresentanti di punta dell’ermetismo, un movimento che si caratterizza per la cosiddetta «poetica della parola», per l’attenzione cioè posta alla forza evocativa della parola-immagine; ed anzi Quasimodo contribuì a fissarne gli stilemi: dall’analogia al correlativo oggettivo, dai sostantivi senza articoli ai plurali indeterminati. Nelle Nuove poesie si avverte invece una svolta espressiva col passaggio dall’ermetismo ad una sorta di realismo magico, col recupero dell’endecasillabo sciolto e con un’attenzione ancora più marcata alle musicalità del verso, secondo una tradizione poetica che risale perlomeno a  Pascoli e D’Annunzio. La musicalità del verso, dall’oboe sommerso alle cetre appese alle fronde dei salici, è infatti una delle caratteristiche fondamentali del poeta siciliano.

Nel dopoguerra Quasimodo pur non avendo partecipato agli eventi bellici né alla guerra civile, conseguì una grande notorietà con le poesie di Giorno dopo giorno (1947), tra cui spiccano Alle fronde dei salici, La muraglia, S’ode ancora il mare. La sua fama fu abilmente alimentata «dall’equivoco sul nuovo impegno civile dell’autore e dalla sua militanza a sinistra» (Pier Vincenzo Mengaldo), dettata quest’ultima piuttosto da motivi di opportunità che da profonda convinzione. L’ideale che traspare è infatti meno la giustizia sociale che l’ansia di pace. C’è da dire tuttavia che in queste poesie, nelle quali predomina la tecnica espressiva delle Nuove poesie, Quasimodo spesso «non oltrepassa la nobile retorica»  (Pier Vincenzo Mengaldo).

Le poesie delle raccolte successive segnano un ritorno all’ermetismo, ma, salvo rare eccezioni, non raggiungono la bellezza e la forza della precedente produzione poetica.

In realtà  l’impegno civile non era nelle corde del poeta. Il rifiuto della storia in nome del mito e della condizione umana resta centrale nella sua poetica. D’altra parte, «l’oscura mutazione è il nucleo centrale dell’ermetismo di Quasimodo in quanto al contenuto. Un nucleo che rimane oscuro perché inattingibile allo stesso poeta» (Cesare Milanese).

E l’«oscura mutazione», a ben guardare, allude a quel doppio volto della vita, a quel nodo inestricabile di amore e morte (eros e thanatos), che la vita presenta e che fu oggetto, oltre che dei miti antichi, di puntuale meditazione nella psicanalisi dell’ultimo Freud e nelle filosofie dell’esistenza di Camus e di Unamuno. C’è in Quasimodo «l’ansia precoce di morire» (Vento a Tindari) insieme a quel verde che spunta inatteso da un tronco che pareva morto, «quel verde che spacca la scorza / che pure stanotte non c’era» (Specchio).

La poesia si fa allora fuga dal tempo storico e ricerca di ciò che si sottrae alla finitudine e al destino mortale di tutte le cose.

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