Splendi come vita, di Maria Grazia Calandrone, Ponte alle Grazie, Milano 2021

di Gianni Antonio Palumbo

 

“E le parole vanno via da noi, dalla cera impassibile dei nostri volti, e attivano le leve submarine di altri esseri umani, uguali a noi. Che splendono, talvolta, come noi splendiamo. Senza saperlo”.

Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone è un’opera di un’intensità sconcertante e di lacerante bellezza. Attribuirle l’etichetta di romanzo autobiografico sarebbe estremamente riduttivo; è, come l’ha definita l’autrice, “una lettera d’amore alla madre adottiva”, ma è al contempo una profonda auscultazione di Sé e della realtà circostante. La storia di un Disamore che ci sembra piuttosto forma estrema di un amore disperato; con essa, la testimonianza di una nascita, quella alla poesia: “Fu così che smise di vedermi. / Fu così che iniziò a perseguitarmi. / Fu così che, infine, divenne cieca. / E fu così che smisi di dipingere / quadri che non poteva più vedere / e tentai la poesia”.

Nel paratesto compare un articolo di giornale (seguito da altri nel corpo dell’opera), che rivela l’adozione, da parte di Giacomo e della professoressa Ione (per Consolazione) Calandrone, di una bambina, Maria Grazia, rimasta orfana a causa del suicidio della madre, Lucia, il cui corpo era stato ripescato nel Tevere. “Forse il padre ha fatto la stessa fine”.

L’incipit vede dunque l’autrice dichiararsi figlia di due madri, Lucia, “bruna Mamma biologica”, e quella che si percepirà come madre “Finta”, in realtà “bionda Madre elettiva”, “Madremammavéra” – scriverà Maria Grazia –, Consolazione. Quando la bambina compirà quattro anni, spaventata dal suicidio di una diciottenne che, prossima alle nozze, aveva scoperto di essere figlia adottiva, Ione le confesserà di non essere la sua “Mamma Vera”. Se la rivelazione si era “depositata e sciolta” nella bimba “come neve”, lo svelamento della “Notizia gigantesca” avrebbe condotto alla proliferazione di fantasmi che già si agitavano nel cuore della professoressa, poi pronti a deflagrare dopo la morte del marito, Giacomo Calandrone, e a dar luogo a quello che Maria Grazia rievoca come l’Inferno scatenatosi nelle loro vite alla fine degli anni Settanta. È allora che la donna realizza che “Ognuno gira nudo e solo sulla ruota siderale degli esposti, tanto più nudo e solo quanto più imbozzolato nella concrezione rasposa delle coperte”.

Splendi come vita è un’opera che si inserisce con un suo preciso timbro nel panorama letterario contemporaneo. Una “nota dell’editore” precisa come “gli a capo inattesi che si trovano talvolta nel testo sono volontà dell’autrice”, ma si tratta, a ben vedere, di una puntualizzazione superflua. Il lettore percepisce chiaramente che in quei momenti il lirismo che innerva di sé una prosa lavoratissima, in cui nessun vocabolo cade a caso, si scioglie nitidamente in versi. È il canto che si fa strada, un canto di dolore, il canto di una creatura che percepisce distintamente il trauma della “gettatezza” eppure vuole risplendere e invitare gli altri a fare altrettanto. “E tu, che leggi // ridi, rovescia in riso / la medaglia dell’Innominabile”. Ne deriva il miracolo di un libro in cui la narrazione, pur scarnificata, presentata in netta soggettiva e a volte tradotta quasi in mito (tali appaiono a tratti le figure del Padre, il politico Calandrone, “l’eroe di Spagna, lo scrittore autodidatta, l’operaio metallurgico che, a Savona, passa le notti della giovinezza sui libri”; la Nonna “Archetipo tutelare” e soprattutto la Madre), si lascia cogliere limpidamente e ti avvolge nella sua fascinazione, ipnotica come la parola poetica. Cogli le citazioni cinematografiche, le reminiscenze letterarie e bibliche, non di rado rovesciate di segno (“La radioattività è paziente e maligna come la vendetta e la pazzia”, vs Corinzi 1, 8), così come ti lasci guidare dalla colonna sonora che accompagna le varie fasi di un’esistenza e, in fondo, di un’intera generazione. I luoghi si scolpiscono nella memoria; penso al Collegio delle Suore Adoratrici Del Preziosissimo Sangue, evocato dalla scrittrice con lucidità impietosa. Assapori ogni parola, da quel verbo “imbozzolare”, ricorrente e altamente espressivo, sino alle sfumature di una lingua in cui si dice che la diciottenne non si era ‘tolta la vita’, ma “si era tolta dalla vita” e quella preposizione articolata imprime al tutto un significato ben differente. Ti lasci cullare dalle anafore del “Mamma” che ricorrono musicalmente in “Noi due”, amorevole apostrofe a secoli di distanza dalle martellanti iterazioni jacoponiche da Maria rivolte al figlio. “Mamma” e non “Madre”, termine che finirà col prevalere nel racconto dell’Inferno e ogniqualvolta Calandrone voglia inscrivere Ione in un’aura solenne, di inattingibile sacralità.

Nell’epoca della serialità narrativa, dell’editing che spesso tutto appiattisce e mortifica allineando ai canoni che fanno del romanzo merce da intrattenimento, la prosa lirica di Calandrone ci fa meditare sul fatto che forse proprio dai poeti potremo tornare ad apprezzare quella scrittura che si sottrae alla comunicazione logora del quotidiano e restituisce verginità alla parola, emozionando.

 

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