Letteratura e cinema: quale rapporto?
di Italo Spada
Sin dalle sue origini il cinema ha utilizzato l’opera letteraria come una ricca fonte di ispirazione. Spesso le ha, per così dire, “restituito la cortesia” provocando nello spettatore che ha visto il film il desiderio di leggere anche il libro. Per cui, immaginando sia il libro che il film come punti interscambiabili di partenza e di arrivo, è il caso di parlare di un duplice percorso culturale. E precisamente: a) dall’opera letteraria al cinema; b) dal cinema all’opera letteraria.
Questo dato, tanto ovvio quanto importante, è spesso omesso o dimenticato quando – in corsi di lettura filmica, in dibattiti pubblici, in semplici scambi di opinioni tra amici – ci si chiede “se è più bello il film o il romanzo”, “se il regista ha stravolto la storia o è rimasto fedele al racconto”, “se letteratura e cinema possono convivere, o no”. I verdetti – almeno da quanto mi consta – non sono mai favorevoli alla trasposizione filmica. Nel migliore dei casi, si arriva ad accomodanti compromessi: “Sì, il film è bello, ma il romanzo è un’altra cosa!”
Ma che competizioni sono quelle che fanno registrare sempre la vittoria dello stesso contendente? Non sarà sbagliato il match?
Probabilmente – come spesso sostengono i registi interessati – non ha senso mettere a confronto due prodotti che, pur avendo molte cose in comune, appartengono a generi diversi. L’errore sta proprio all’origine, nel dare come sottintesa e scontata una premessa inaccettabile: quella di non tenere conto della “direzione del percorso”. Dall’opera letteraria al cinema e dal cinema all’opera letteraria sono, infatti, due itinerari paragonabili tra loro esattamente come potrebbero essere paragonabili i viaggi da Milano a Roma e da Roma a Milano. Se nessuno può negare che il viaggiatore che parte da Milano per arrivare a Roma percorre la stessa distanza del viaggiatore che da Roma va a Milano, tutti converranno nel sostenere che i due viaggiatori non hanno di certo gli stessi interessi, non incontrano le stesse difficoltà, non si propongono gli stessi obiettivi e che, in sostanza, non compiono lo stesso viaggio.
Chiariamo meglio questo concetto.
Il racconto letterario, poiché “evoca delle immagini”, è già un film; anzi: è la migliore trasposizione filmica che il lettore possa immaginare, giacché è lui stesso a realizzarla, a fare da regista, sceneggiatore, scenografo, montatore e interprete. Quando alla lettura del libro fa seguito la visione del film, la versione filmica personalizzata del lettore entra in contrasto con la versione che altri gli impongono ed è inevitabile che il confronto-scontro tra noi e gli altri – nel quale, tra l’altro, sosteniamo l’incompatibile duplice ruolo di contendente e di giudice – non può che concludersi a nostro vantaggio.
Quando il percorso si compie in senso opposto, nonostante l’avvertimento di sensazioni diverse, le reazioni non cambiano. Da una parte, infatti, restiamo vincolati alla versione cinematografica (dopo aver visto ieri Il Gattopardo di Luchino Visconti, è impossibile leggere oggi il romanzo di Tomasi di Lampedusa senza trasferire nel principe don Fabrizio di Salina le fattezze di Burt Lancaster; e ancora: chi legge Il nome della rosa di Umberto Eco dopo aver visto il film di Jean-Jacques Annaud, come fa a ricostruire nella sua fantasia un convento diverso da quello ideato da Dante Ferretti a Cinecittà e un Guglielmo di Baskerville senza il volto di Sean Connery?); dall’altra, anche senza volerlo, eliminiamo scene, aggiungiamo sequenze, modifichiamo la scenografia, insomma “smontiamo e rimontiamo” la storia come vogliamo, perché il nostro film resta sempre migliore di quello degli altri.
Ignorare o sottovalutare questo fenomeno significa, pertanto, impostare in modo non corretto l’argomento. Non si tratta qui di bollare il presuntuoso lettore che si crede più bravo del regista, o il presuntuoso regista che pretende di imporre la sua ricostruzione allo spettatore. Il vero nocciolo della questione sta nel riconoscere una cosa semplicissima: vale a dire che scrivere un testo letterario e trarre un film da un testo letterario sono due operazioni diverse e non paragonabili tra di loro.
La prima, infatti, è lineare e rispetta i ruoli e le funzioni degli elementi coinvolti. La sua enunciazione più semplice potrebbe essere la seguente: un Autore crea un Testo che un Lettore legge.
La seconda, invece, a causa di appropriazioni e scambi di ruoli, è più complicata. La sua enunciazione ne rende meglio l’idea: un primo Autore crea un primo Testo che un primo Lettore legge e fa suo per diventare, a sua volta, un secondo Autore che crea un secondo Testo per un secondo Lettore.
Sintetizziamo le due operazioni graficamente:
1a operazione: la lettura del testo letterario
Autore del testo letterario / Testo letterario / Lettore
2a operazione: la visione del film
Autore 1 del testo letterario / Testo letterario 1 / Lettore 1 del testo letterario 1 che diventa Autore 2 (regista) e crea un Testo 2 (il film) / Spettatore o Lettore 2
Vediamo, adesso, quello che accade quando un regista decide di diventare, da Lettore, secondo Autore. Inevitabilmente, egli è costretto a scegliere una di queste due regole:
A) tradurre in immagini il testo letterario rimanendo fedele a ciò che l’autore ha detto e a come l’ha detto; B) trarre liberamente dal testo (eliminando ciò che reputa superfluo, rilevando o chiarendo alcuni aspetti, aggiungendo, modificando, ecc.) e crearne uno nuovo facendolo proprio.
Si tratta, in realtà, di una scelta solo apparente, giacché la regola A gli è preclusa, in quanto praticamente irrealizzabile. Il procedimento semplice (o di messaggio immediato), infatti, esiste solo in teoria, perché i tre elementi che lo compongono – Autore, Testo, Lettore – non sono mai lineari e univoci come dovrebbero essere. Nonostante le apparenze, insomma, un autore non è mai ben definito, un testo non è mai semplice e di facile comprensione, un lettore non è mai bene individuato. Questo perché:
1) l’Autore:
– non fa mai tutto da solo, visto che – con funzioni diverse ma pur sempre importanti – interagiscono con lui altre persone: il tipografo, il correttore di bozze, il grafico, l’editore, il traduttore (nel caso di autori stranieri), ecc.;
– non sempre riesce a dire tutto quello che vuole dire e come lo vuole dire; ossia: con le parole giuste, senza farsi condizionare da tabù, blocchi, visioni personali, credenze, ecc.;
– non sempre vuole dire tutto; talvolta, anzi, fa appello alla collaborazione attiva del lettore e lo chiama a completare, interpretare, dedurre, inferire;
2) il Testo:
– non sempre è ben leggibile e “chiuso ad altre interpretazioni”;
– spesso (qualcuno, come Eco, direbbe “sempre”) è “un’opera aperta” che lascia al lettore la definizione dei particolari di un’ambientazione, che presenta personaggi da completare in alcuni aspetti fisici e psicologici, che evoca altri testi, che fa uso di metafore, che ricorre a citazioni, ecc.
3) il Lettore:
– non è mai un singolo individuo ben definito. Con il termine “lettore”, infatti, si intende un gruppo di persone di diversa estrazione sociale che si ritrova nella lettura dello stesso testo e all’interno del quale ognuno interagisce come vuole e come può, a seconda della propria preparazione o impreparazione culturale, della distrazione o dell’attenzione del momento, delle personali idee politiche o religiose, del proprio vissuto e degli stati d’animo, del modo di leggere e della scelta delle pause e dei toni, della capacità di partecipare alla vicenda, di evocare immagini, di interpretare le parole…
Un regista, pertanto, non può fare altro che indirizzarsi verso la regola B).
La sua non è un’operazione illecita. Anche se in altra forma (non dalla frase scritta alla sequenza immaginata, ma dalla frase scritta alla sequenza filmata), egli non fa nulla di diverso da quello che ogni lettore fa: una lettura personalizzata del testo. E, quando diventa Autore 2 e crea un suo testo, non fa nulla di diverso (se non nella forma) di quello che facciamo anche noi quando narriamo ad altri con parole nostre ciò che abbiamo letto.
La verità è che, pubblicare un testo, significa dargli vita propria, lasciarlo andare per la sua strada e concedergli la possibilità di diventare un’altra cosa: una narrazione orale, un film, un quadro, una canzone.
A che serve, allora, confrontare i testi?
Se è vero che la domanda “il film è migliore o peggiore del romanzo?” è fuori luogo, è altrettanto vero che ce ne possono essere tante altre che, al contrario, sono opportune e lecite. Dal confronto tra le opere letterarie e le loro trasposizioni filmiche (già di per sé interessante come esercizio di attenta lettura) nascono molti stimoli per la riflessione e la discussione: per quale motivo il regista ha omesso alcune parti? l’inserimento di scene non presenti nel testo letterario altera o no la storia? Siamo d’accordo sulla scelta dei luoghi e dei costumi operata dallo scenografo e dal costumista? Ci sembra adatta al personaggio l’interpretazione dell’attore? La nostra ricostruzione fantastica diverge o coincide con quella del regista?…
Non sono domande finalizzate a pura e semplice disquisizione, ma materiale utile per una sorta di Cineterapia, espressione sempre più di moda in una società che interroga se stessa e moltiplica lo studio dell’influenza dell’immagine nella nostra vita. Per avventurarsi in questo studio non bisogna necessariamente essere professionisti dell’inconscio; chi si interessa di educazione audiovisiva, di formazione dei giovani, di sociologia può tentare questo affascinante viaggio nel mondo della fantasia. E che l’immagine arrivi dal cinema o della letteratura appare, a questo punto, di secondaria importanza.
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