Parlerò dei tuoi occhi, visto che di Arianna
forse si ha memoria
solo fra le gambe di Teseo.
Di Arianna o no, gli occhi sono azzurri.
azzurri di un azzurro molto fragile,
come se nel fare il colore un bambino
avesse calcolato male l’acqua.
[…] Ora parlerò degli occhi greci di Arianna,
che non sono di Arianna, né sono greci,
di questi occhi che se fossero musica
sarebbero la musica di acqua degli oboi,
parlerò appena degli occhi del mio amore,
di questi occhi di un azzurro così azzurro
che sono proprio l’azzurro degli occhi di Arianna.» «L’Eros occupa una parte importante nella sua opera, un Eros spontaneo e solare. […] Nella sua poesia il corpo, limpido ed apollineo, diventa quasi un’anima carnale: si cancella il dualismo caratteristico della nostra cultura cattolico-occidentale» (Vera Lùcia de Oliveira). E difatti non c’è alcuna distanza nel poeta portoghese tra corpo e anima, tra uomo e mondo, tra interno ed esterno. Così nella lirica Sull’orlo del mare, tratta dalla raccolta A domani, la linea del viso amato si confonde col pensiero, col desiderio, col mare e col vento: «Sull’orlo del mare, nel rumore del vento, dove è stata la linea pura del tuo viso o solo pensiero (e abita, segreto, intenso, solare, tutto il mio desiderio) lì coglierò la rosa e la palma. Dove la pietra è fiore, dove il corpo è anima.» L’eros, la solare sensualità, la palpitante e tangibile bellezza dei corpi, il desiderio conturbante sono cantati da de Andrade con versi di grande suggestione. Ecco un esempio, pochi versi allusivi e struggenti: «Mai l’estate aveva indugiato così sulle labbra e sull’acqua come potevamo morire, così vicini e nudi e innocenti?» (Eros, da Mar de Setembro del 1961). E in quest’altra tratta da Ostinato rigore del 1964 si amalgamano giovinezza, tumulto dei sensi, silenzio: «Ascolto il silenzio: in aprile i giorni sono fragili, impazienti e amari, i passi minuti dei tuoi sedici anni si perdono per le strade, ritornano con resti di sole pioggia sulle scarpe, invadono il mio dominio di sabbie spente, e tutto inizia ad essere uccello o labbra, e vuole volare. […] Un solo rumore di sangue giovane: sedici lune alte, selvagge, innocenti e allegre, ferocemente intenerite; sedici puledri bianchi sulla collina sopra le acque. […] Un rumore di semi, di capelli o erbe appena tagliate, un irreale albeggiare di galli cresce con te, nella mia notte di quattro muri, sulla soglia della mia bocca, dove indugi nel dirmi addio. Ascolto un rumore: è solo silenzio» (Ascolto il silenzio). Non possiamo terminare questa breve rassegna senza riportare la poesia dedicata alla madre, dove gli elementi naturali (la pioggia, gli ulivi) si legano inestricabilmente alla tenerezza del ricordo: «La pioggia, ancora la pioggia sugli ulivi.
Non so perché sia tornata oggi pomeriggio
se mia madre se ne è già andata via,
non viene più sulla veranda a vederla cadere,
non alza più gli occhi dal cucito
per chiedere: Senti?
Sento, mamma, è ancora la pioggia,
la pioggia sopra il tuo viso.» La poesia per il poeta portoghese è nemica del conformismo, delle morali, della disciplina di partito, della burocrazia: «La poesia non va a messa, non obbedisce alla campana della parrocchia, preferisce aizzare i suoi cani alle gambe di dio e degli esattori delle tasse. […] La poesia adora camminare scalza sulle sabbie dell’estate» (La poesia non va, da O sal da lingua del 1995). La poesia in qualche modo allontana anche la morte. «La morte non esiste: / tutto è canto o fiamma», dice il poeta portoghese. E nei suoi versi vivono per sempre il corpo, la giovinezza, lo sguardo colmo di desiderio che precede l’atto d’amore.