Marinetti e il futurismo

di Sandro Marano

 

Il Manifesto del Futurismo, com’è noto, fu pubblicato a pagamento il 20 febbraio 1909 su Le Figaro a firma di Filippo Tommaso Marinetti (1876 – 1944). Promotore di cultura, poeta e scrittore, combattivo e combattente, istrionesco, geniale, iconoclasta, rivoluzionario e accademico d’Italia, incurante delle contraddizioni: i tratti del suo fondatore si riverberano nel movimento che fu l’unica vera avanguardia italiana nella cultura europea e si espresse soprattutto nei manifesti, nella poesia, nella pittura, nei gesti eclatanti. Nell’antologia I nuovi poeti futuristi del 1925 Marinetti tracciava un primo bilancio del movimento da lui fondato: «Nasceva così il movimento futurista, con un largo e frenetico amore per l’arte nuova e per molti ingegni lirici italiani soffocati dallo scetticismo misoneista. Nasceva il  movimento futurista antiscuola, antiaccademia,  che doveva sgomberare l’Italia dal passatismo ruderomane, dal professoralismo passatista e preparare l’attuale rinascenza italiana».

«La retorica – osserva Francesco Grisi nella prefazione all’antologia I futuristi – si è molte volte insinuata nelle pagine. Forse non se ne poteva fare a meno. Anche per colpa di Marinetti che imbarcava nella sua navetta buoni e cattivi. Ma la poesia c’è e si sente. Un nuovo modo per vivere. Un linguaggio che diventa ironia, magia, simbolo. Abbandona la grammatica e la forma-tradizione».

Accanto al proclama “Uccidiamo il chiaro di luna” ci sono versi delicatissimi, come quelli del lungo poema (ben 342 versi!) de “La canzone del mendicante d’amore”, di cui riportiamo l’inizio, alcuni passi centrali e la fine:

«Ti avevo vista una sera, tempo fa, non so dove,
e da allora ansioso aspettavo
La Notte, gonfia di stelle e di profumi azzurrini,
su di me illanguidiva la sua nudità
abbagliante e convulsa d’amore!
Perdutamente, la Notte
apriva le sue costellazioni
come vene palpitanti di porpora e d’oro,
e tutta la illuminante voluttà del suo sangue
colava pel vasto cielo
Io stavo, ebbro, in attesa, sotto le tue finestre accese,
che fiammeggiavano, sole, nello spazio
Immobile, aspettavo il prodigio supremo
del tuo amore e l’ineffabile
elemosina del tuo sguardo!
[…]

Certo pensai nei favolosi giardini
ove s’esilia l’anima mia
chimerici peschi foggiarono
la tua carne flessuosa, con la neve
odorante dei loro fiori
che le sonore dita del vento plasmavano!
[…]

Allora la tua bocca rosea s’aprì,
fragile conchiglia rombante,
per mormorare sinuosamente
il delirio dello spazio e il canto febbrile dei mari!
Al ritmo della tua voce, il mio cuore
si preparò lentamente a salpare
verso porti esaltati di sole
e verso sfolgoranti isole d’oro
[…]

Poiché sono il mendicante
che va lungo le spiagge
implorando amore e baci, per nutrirne il suo Sogno,
con in cuore il terrore di affondare per sempre
i suoi piedi sanguinanti
nella freschezza carnale delle sabbie, in riva ai mari,
in una qualche Sera
di stanchezza mortale e di Vuoto infinito!

 

È noto il giudizio positivo che Antonio Gramsci dette del movimento futurista. «La critica futurista – osserva ancora Grisi – è contro la tradizione in nome della rivoluzione come utopia e troverà in movimenti di sinistra (come il fascismo sansepolcrista e interventista o il comunismo) adesione convinta e affettuosa».

Marinetti e i futuristi cantavano «il coraggio, l’audacia, la ribellione». Sono questi «gli elementi essenziali della loro poesia che si travasavano automaticamente nella lotta politica» (Pino Rauti e Rutilio Sermonti in Storia del Fascismo, Le interpretazioni e le origini, I volume). E sono questi i valori cui Marinetti rimase fedele tutta la vita, come è adombrato nel conciso e felice ritratto che Francesco Grisi fa del fondatore del Futurismo: «Giovane e radicale non accetta discussioni. Ama la lotta e l’audacia. Incontra Benito Mussolini per caso. E l’occasione diventa per lui un destino. Lo seguirà nella buona e nella cattiva sorte».

Nel Quarto d’ora di poesia della X MAS, il poemetto pubblicato postumo sul Corriere della sera il 3 gennaio 1945, Marinetti si richiamava idealmente al Manifesto del 1909 per cantare ancora una volta il coraggio e il sentimento di rivolta di quei giovani che avevano accettato di combattere per l’onore dell’Italia e per una causa ormai perduta:

 

«Salite in autocarro aeropoeti e via che si va finalmente a farsi
benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini criticomani
lambicchi di ventosi pessimismi».

 

Scrive Luciano De Maria: «Reduce dalla campagna di Russia, cui aveva partecipato da volontario nonostante l’età, ormai stanco nel corpo e malato, Marinetti aveva aderito alla Repubblica sociale italiana […]. Nella Repubblica sociale Marinetti vedeva eliminata, secondo i sogni della sua giovinezza, l’odiata monarchia e vedeva riaffiorare quell’elemento socialista che, presente nella concezione politica futurista e nel fascismo delle origini, era stato sotterrato durante il fascismo trionfante. L’ultima composizione di Marinetti è una vibrante testimonianza poetica di questo stato d’animo».

Ed Ezra Pound, nel canto LXXII scritto in italiano nel dicembre 1944 dall’indubbio sapore dantesco, così rievocava la figura di Marinetti da poco morto:

 «Marinetti mi ha detto:
“Beh, sono morto, ma non voglio andare in paradiso,

voglio continuare a combattere, voglio il tuo corpo,
con il quale potrei continuare a combattere.”
E io ho risposto: “Il mio corpo è già troppo vecchio, Tomaso,

inoltre, dove andrei? Ne ho bisogno di un corpo.
Ma ti darò un posto nel Canto, ti darò la parola

[…]

Ho fatto il canto della guerra
eterna tra la luce e il fango».

 

Non tutti gli aspetti del Futurismo però ci convincono. Esaltare la velocità, la macchina, il rumore, fare dell’innovazione nell’arte un valore in quanto tale, significa in buona sostanza avallare la civiltà industriale e i sui misfatti verso la Natura vivente. «Anche quando la collaborazione tra le avanguardie artistiche del Novecento e i settori economico-produttivi in ascesa non è stata diretta, come è avvenuto con i futuristi – nota il saggista Maurizio Pallante in Meno e meglio – la sintonia è stata totale e si è tradotta in un sostegno reciproco».

Non possiamo a questo riguardo che concordare col giudizio di Maurizio Pallante secondo cui le avanguardie artistiche del Novecento hanno finito spesso per tradire la duplice missione dell’arte, che è da un lato «la difesa della bellezza originaria del mondo dai guasti che può arrecarle un’umanità convinta di esserne la padrona, autorizzata a sfruttarne le risorse»; e dall’altro «la valorizzazione della bellezza che può aggiungere al mondo un’umanità consapevole dei legami vitali che la inseriscono nel contesto della biosfera insieme a tutte le altre specie viventi».

 

 

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