Il mondo della scuola nell’universo cinema
di Italo SpadaIl linguaggio delle cose
Nel lessico cinematografico si chiama “il materiale plastico”. Con questo termine si intende quel materiale visivo che parla da sé, recepibile dallo spettatore grazie al suo muto linguaggio. Non solo, quindi, ciò che viene utilizzato in funzione scenografica, ma anche gli oggetti che “entrano” nella vicenda e che finiscono con il rivestire ruoli determinanti.
La scuola intesa come struttura, ovviamente, è sempre presente nei film di cui ci occupiamo e, con essa, non possono mancare l’aula, i corridoi, la campanella, la palestra, la presidenza, la cattedra, la lavagna, i gessetti, il cancellino, i banchi, l’attaccapanni, i libri, i quaderni, le penne, le matite, le gomme…
Una particolare attenzione meritano, tuttavia, tre film che vedono al centro della storia l’edificio, i libri e il quaderno.
Essi sono: I giorni più belli (1956) di Mario Mattoli, Fahrenheit 451 (1966) di Francois Truffaut e Dov’è la casa del mio amico? (Khaneh-ye doust kojast?) (1987) di Abbas Kiarostami.
Il primo risente dell’atmosfera del cinema italiano dei “telefoni bianchi”, di quel cinema, cioè, che dava al pubblico “una distrazione a buon mercato, poco impegnativa, poco intelligente, poco realistica”, come dice Di Giammatteo e come riporta Angelo Solmi (Cinema specchio del tempo, p. 146, La Scuola). Si tratta di un film che ha un valore talmente irrilevante da non essere quasi mai citato nella storia del cinema; nonostante ciò, vale la pena riproporlo per il messaggio che, al di là dei valori artistici, esso trasmette. Al centro della storia, “crepuscolare e nostalgica (…) messa in scena con un gusto del bozzetto amabile anche se facile” (Dizionario dei Film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi), c’è un vecchio edificio scolastico che rischia di scomparire; la sua demolizione rientra, infatti, nei piani di un costruttore che mira a una grossa speculazione edilizia. Il potente imprenditore, però, non ha fatto i conti con una donna ormai anziana che ha speso tutta la sua esistenza facendo la maestra elementare e che, per questo motivo, è particolarmente legata alla “sua” scuola. La lotta tra i due è impari, ma la scuola non sarà demolita, perché dalla parte della maestra si schierano i suoi ex alunni, riconoscenti per tutto ciò che hanno da lei appreso.
Ben altra sarà la posizione di John Boorman, in Anni ’40 (Hope and Glory) (1987). Qui – lo ricordiamo per associazione di idee contrastanti e per inciso – un bambino di nove anni, tra i ricordi brutti della seconda guerra mondiale, ne inserisce uno bello, fonte di gioia per lui e per tutti i ragazzi della sua età: la inaspettata vacanza per… la distruzione della scuola!
Tratto dal romanzo “Gli anni della Fenice” di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 è, invece, un apologo fantastico e ci mostra un insolito Truffaut che invita a meditare su una società ormai in balia dell’immagine e completamente ostile alla cultura libresca. “Non un pamphlet o un film a tesi, ma la commossa previsione di un mondo senza cultura e la descrizione della progressiva ribellione del protagonista che, proprio attraverso la cultura, intravvede la possibilità di cominciare a essere uomo. Il sapore fantascientifico del racconto non è dato dagli abituali artifici del genere, ma dalla analisi del comportamento dei personaggi, creature senza linguaggio e senza vita di una ebete e stereotipata civiltà delle immagini.” (La storia del cinema, Vol. 4, Vallardi)
Al regista l’argomento “interessa perché gli permette di esprimere l’attaccamento quasi feticistico per il libro in quanto oggetto e perché riscopre il lato familiare del fantastico, ritrovando una dimensione umanistica quasi dimenticata, anche se la forza dell’intreccio e del messaggio (e il disaccordo con il protagonista) appesantiscono il film e mettono in secondo piano (cosa insolita per Truffaut) i sentimenti dei suoi personaggi.” (Dizionario dei Film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi)
Questa la storia: in una futura società ci sarà spazio solo per la civiltà delle immagini e il compito di provvedere alla tranquillità dei cittadini sarà affidato ai pompieri che, senza pietà, bruceranno (alla temperatura di 451 gradi Fahrenheit) tutti i libri. Montag, stimatissimo pompiere incendiario in procinto di ricevere una promozione, dopo avere incontrato la professoressa Clarissa, scopre il piacere della lettura e, invece di bruciare i libri che sequestra, tradisce la causa dei nemici del libro e diventa un accanito lettore. Denunciato dalla moglie, è costretto a uccidere il suo superiore e a fuggire come un fuorilegge, braccato dalle forze dell’ordine. Troverà scampo solo nella foresta, aderendo ad una setta di “uomini-libro”, composta da gente di ogni età che, per permettere la sopravvivenza della cultura, impara a memoria le grandi opere di ogni tempo e di ogni paese.
Dov’è la casa del mio amico? (Khaneh-ye doust kojast?) , infine, utilizza il quaderno come pretesto di amicizia e, passando attraverso un mondo adulto prosaico e diffidente, sfocia in immagini di autentica poesia. La storia, semplice e poetica, narra del piccolo Ahmad il quale, a lezioni finite, si accorge che il quaderno di un compagno di scuola è finito per sbaglio nella sua cartella. Per evitargli l’ingiusta punizione, egli decide, allora, di riportarglielo. Questo semplice gesto di cortesia si tramuta, però, in una affannosa ricerca; Ahmad, infatti, non sa dov’è la casa del suo amico e la sua corsa al di là delle colline diventa un’autentica peregrinazione in mezzo ad adulti indifferenti e ostili.
Dov’è la casa del mio amico? è stato girato nel villaggio di Mazandaran, qualche centinaio di chilometri a nord di Teheran, epicentro del terremoto che qualche tempo dopo ha colpito l’intera regione. (…) E’ l’attraversamento di un mondo estraneo e quasi ostile, quello degli adulti, che rappresenta un luogo privilegiato
del cinema del regista iraniano, il quale pare lanciare continuamente lo sguardo su coloro che saranno uomini nel futuro.” (Enrico Livraghi, L’Unità, 8/2/1996)
“Si potrebbe citare Rossellini per la purezza dello sguardo e il taglio semidocumentaristico; Bresson per la depurazione formale e per la bellezza mai estetizzante delle immagini; ma non si deve cadere nel vizio di ricondurre al noto ciò cui non si è abituati. Kiarostami, tra i più noti cineasti del suo paese, è semplicemente un grande maestro: che, con nulla, costruisce una suspense incredibile. Il realismo sfonda verso il fantastico (specie nell’uso del sonoro, con quel vento e quei latrati), e la poesia emerge sorprendendo lo spettatore (come il fiore nel quaderno nell’ultima, splendida immagine), lasciandolo disarmato.” (Dizionario dei Film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi)
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