La fisica dell’amore in Patrizia Cavalli

di Patrizia Gnarra

 

È un dato di fatto che l’umanità giri su se stessa, inconsapevole, oramai sprezzante d’ogni slancio universalistico. Nell’antichità i filosofi si interrogavano sulle origini, il senso del viaggio quale metafora di una missione elevatrice se non salvifica. Oggi da quali slanci sono mossi i filosofi e soprattutto a chi si rivolgono?

La poesia del Novecento ha posto le stesse domande filosofiche in forme talvolta nuove o rigenerate sull’eredità classica, in un metro libero e per così dire sensibile alle fluttuazioni dell’io e del suo ritrovarsi nelle manifestazioni di un paesaggio solo in parte naturale.

In pratica molta poesia contemporanea nasce da questa dicotomia di fondo che si fa verso spezzato a volte, aderenza al linguaggio quotidiano, o una ritrovata musicalità costruita su simmetrie di suoni-parole.

Ebbene, a questo proposito, proponiamo sprazzi del percorso poetico di Patrizia Cavalli, tentando di coglierne quello slancio vitalistico e universalistico di cui si fa depositaria la Poesia, in luogo della filosofia.

Si parta proprio dall’ultima raccolta poetica “Vita meravigliosa” (2020) per ritornare alla stessa matrice, in quanto sin dagli esordi il campo d’indagine è incentrato su alcuni temi ricorrenti che diremo universali per assonanza alla natura umana.

Tuttavia il sostrato culturale e letterario derivati dalla frequentazione in gioventù della nota scrittrice Elsa Morante deve aver favorito una riflessione filosofica tutta personale e allo stesso tempo intrisa di un umanesimo composito unito ad una raffinata ironia.

Le coppie antitetiche amore-solitudine e piacere-morte appaiono spesso nella ricerca perenne del sé, studiate e verificate dall’autrice quasi fossero scorie di una fenomenologia dell’essere in divenire.

Confinando con il dolore, l’amore è l’incontro con l’altro da sé che è manifestazione di uno stupore primigenio di fronte alla sfida nascente con l’ignoto, l’estraneo amato e attirato a sé.

Nel testo “Io guardo il cielo, il cielo che tu guardi” la musicalità dell’ordito poetico è data semplicemente dalle ripetizioni, soprattutto anafore, introdotte nel primo verso dallo schema del chiasmo, ponendo al centro la parola cielo che è anche la chiave di lettura del tutto. Ma a ben guardare la simmetria interna al testo, resa tutta in corrispondenze baudelairiane, è minata sin dall’inizio dal tema dalla divergenza di visione con l’altro, l’oggetto amato.

 

“Io guardo il cielo, il cielo che tu guardi/ ma io non vedo quello che tu vedi./ Le stelle se ne vanno dove sono,/ per me luci confuse senza nome,/ per te costellazioni nominate.”

 

Ora in questo umanesimo dalle origini spurie (probabilmente leopardiane in parte) dove ogni cosa trova posto in apparenza, tutto è destinato a sfaldarsi sotto la doppia lente raffinata dell’ironia-autoironia; si esplica così l’entropia della solitudine ove la morte si confonde, fascinosa, con il sogno:

 

“…prima che il sogno (la morte) scioglierà il tuo ordine.

Ah, sognami senza ordine e dimentica…”

 

Ne consegue che l’ordine è una prigione, fondata su fragili credenze e parte costitutiva della morte stessa; in tutto ciò a poco vale il mito consolatorio delle Parche:

 

“E me ne devo andare via così?/ Non che mi aspetti il disegno compiuto/ ciò che si vede alla fine del ricamo/ quando si rompe con i denti il filo/ dopo averlo su se stesso ricucito/ perché non possa più sfilarsi se tirato./ Ma quel che ho visto sì tirato./ Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato.”

 

In definitiva non vi saranno mito o religione alcuna a donare risposte certe; forse l’avvicinarsi della morte, quale ultimo confronto, porterà a noi il mistero rivelato dell’amore:

 

“Ma prima di morire/ forse potrò capire/ la mia incerta e oscura  condizione./ Forse per non morire/ continuo a non capire/ sicura di questa chiara confusione”.

 

Tale è l’ordine associato all’ossessione del tempo, ma di certo questa sorta di abbandono negli elementi del caos poco ha a che vedere con una visione metafisica del tutto. Al contrario, diremo per contrasto o per quella dicotomia generatrice che, l’umanesimo della Cavalli si nutre di una fisica profondamente critica sulla fenomenologia del mondo e dell’universo antropocentrico, al  punto che mette in discussione gli strumenti della scienza stessa, e a tal punto da restituire ogni tentativo umano di misurare i fenomeni fisici quale falso e miserabile metro di interpretazione dell’ universo tutto.

 

“Addosso al viso mi cadono le notti/ e anche i giorni mi cadono sul viso…/ il loro peso non è sempre uguale, / a volte cadono dall’alto e fanno buche,/ altre volte si appoggiano soltanto/ lasciando un ricordo un po’ in penombra./ Geometra perito io li misuro/ li conto e li divido/ in anni e stagioni, in mesi e settimane./ Ma veramente aspetto.”

L’ultimo verso riportato “Ma veramente aspetto” sembra sussurrarci la certezza della morte di consolatoria memoria leopardiana, a noi cara.

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