Abbracciami cielo di Tania Chimenti, Wip edizioni, 2023
di Giuseppe Scaglione
La poesia di Tania Chimenti si muove in una dimensione ampia – densa di ritmi e musicalità – che spazia dall’introspezione alla vita di tutti i giorni, tuttavia riserva alla dinamica dei sentimenti una particolare cura. Sembra planare sulle cose del mondo con un coinvolgimento emotivo che, sebbene sorvegliato e composto, esprime tutta la ricchezza del sentire che le è propria. Anche il linguaggio ricorre a forme espressive larghe, è polifonico: ci sono versi in cui propone toni e sintagmi che risuonano lievi – o addirittura romantici o (perché no) malinconici – che si alternano ad altri dove la scrittura è decisa, sicura, finanche icastica, in modo particolare quando si distende su elementi espressivi che richiamano il quotidiano, la “realtà minima” dell’esperienza. Oppure assume, trattando della quotidianità, toni quasi crepuscolari: Dalla finestra della cucina che dà sulla corte intuisco la vita degli sconosciuti I panni stesi trasudano le vite La tuta blu di un giovane operaio La veste appesa a una gruccia testimone di una piacevole serata La camicia che non sopporta le mollette e cerca l’uguale svolazzante libertà di lenzuola che galleggiano nell’aria un contesto esistenziale che l’autrice contrappone a un altro contesto, più elevato, come se quest’ultimo fosse una “realtà superiore” sebbene non trascendente: una realtà concreta fatta di spirito e materia, di sentimenti e di eros: Non ti ho detto, ad esempio, che la tua lingua è un martello di seta. E la mia bocca una campana tibetana. Il mio sangue ascolta le tue vibrazioni. Nonostante sia una raccolta poetica d’esordio, i contenuti ontologici sono definiti con sorprendente nitore: ci sono molti componimenti, forse la maggior parte, che sembrano esplorare il crinale dell’esistenza, la linea di confine tra queste due realtà – antropologicamente intese – in una chiave ermeneutica che non concede nulla alla poesia di massa, agli stereotipi, ai luoghi comuni. Questa esplorazione include necessariamente suggestioni della cultura classica ma anche della cronaca, mentre la parola poetica scava senza finzione nel distacco e nella sofferenza: come se fosse una cosmogonia del linguaggio, ogni componimento cerca o crea un luogo indefinito dell’anima che anela a trasformarsi in infinito. Ponendosi da un punto di osservazione apparentemente disincantato, Chimenti ci presenta con omerica grazia un’architettura sentimentale che prende coscienza di sé, tracciando parole e versi come sentenze che diventano al tempo stesso condanna e redenzione. Osservando l’esistenza, l’amore, la realtà minima e la realtà superiore accade che la solitudine interiore del poeta, la bell’anima del poeta si diceva un tempo, si trasformi nella dirompente forza della parola. Parola che, trattata con profondo rispetto dall’autrice, risulta nitida senza essere oracolare, profonda senza essere autoreferenziale, insomma molto, molto originale. D’altronde è anche squisitamente originale – nella declinazione che resta comunque sempre contemporanea del modo di intendere la poesia – la frequente ricerca delle assonanze, ricerca che si spinge fino a volgere talvolta l’occhio, e la penna, alla rima. Chimenti con la sua poesia esprime nel percepito sub limine il bisogno di un “altrove”, incarnato da un “cielo” sincretico nel cui abbraccio rifugiarsi. Bisogno che è ricorrente nel vissuto quotidiano e più o meno consapevolmente agita tutti noi, tranne forse gli individui amorfi (non sarà politically correct affermarlo però, ammettiamolo, ci sono gli individui amorfi), verso i quali la parola poetica della silloge sembra lanciare strali sottili ma acuti. Dunque un “altrove” che può ben essere anche la scrittura stessa, ma, laddove da sola non basti, quantomeno può indicare la via per raggiungerlo, tracciare un percorso dove la bussola è la parola, custodita dalla poetessa nella propria intima stanza a cui nessuno può accedere se non attraverso la poesia stessa, come se questa fosse una luce radente sulla superficie dell’esistenza che permette di scorgere i solchi interiori, ferite che altrimenti resterebbero mute. Ma questa luce della parola poetica che traccia i tagli e le cuciture, o i giorni non vissuti, ha i contorni di un volto benevolo e femminile. È per rileggere poesie che io rinascerei mille e una volta ancora dice di se stessa Chimenti nei versi, ed è come una mano tesa a indicare la strada per l’altrove al quale noi ed essa stessa aneliamo. Poesia dunque come abbraccio alle tante pieghe dell’anima, per conservarsi integri lungo un viaggio al quale siamo impreparati, la vita, che compiamo con passi incerti e spesso imprecisi. Ma è per questo che ci riconosciamo profondamente veri e umani, se anche quando sanguiniamo l’anima non va in frantumi, se sappiamo essere “poeti” della vita anche senza scrivere poesie, se comprendiamo che Il poeta si rialza tra pietre d’inciampo. Unico scandalo è la morte. La poesia vince nascondendosi tra i versi.
In altri termini, se sappiamo scorgere e raggiungere l’altrove proprio nel qui e ora. Questo si chiama rinascere. Una poetica del rinascere, quindi, è quella che regge l’impianto espressivo della silloge, una scrittura maieutica proiettata verso la vita: ci spiega che il vivere non può essere inteso come semplice sopravvivenza. In questa direzione, il viaggio poetico fonde in perfetto equilibrio gli orientamenti dell’anima alle risoluzioni dell’intelletto e preserva, nel contenuto genuino delle parole, una intimità dedita alla speranza che è voce universale, visione appassionata, saggezza e memoria. Ma un’intimità che avverte anche il bisogno di dichiarare il proprio rifiuto all’indifferenza, al farsi “estraneo” all’umanità e alla propria natura, non importa se questa sia un’intimità felice oppure tormentata, conta la speranza. A questa affida il silenzio, l’inespresso che permea tra i versi le pagine del libro e condivide un linguaggio sobrio e autentico che contiene in sé il coraggio della gentilezza, della generosità, della nostalgia, dell’amore, mentre al tempo stesso condanna inesorabilmente e senza appello l’indifferenza, la crudeltà e la spietatezza dei comportamenti umani. In questo inespresso si incontrano l’universale e il particolare, la realtà minima e la realtà superiore, a condizione che un amore intransitivo e senza spiegazioni (quasi il dantesco amor che move il sole e l’altre stelle) ovvero la capacità stessa di amare, attraversi l’esistenza.
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