La ragione vitale di Ortega y Gasset

di Sandro Marano

 

Nella sua opera il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset ha condotto una lotta incessante contro l’utopismo e il progressismo. L’utopismo rimanda la verità ad un incerto e lontano futuro, il progressismo si accontenta della verità del giorno e scivola nel relativismo. Utopismo e progressismo, a ben guardare, sono due facce della stessa medaglia, frutto di quella cultura razionalista che in nome di astrazioni, come la ragione matematica, l’eguaglianza, il progresso, l’umanità senza differenze e senza volto, intende cancellare la storia, il passato, le tradizioni, la natura. Ma come soleva dire il filosofo della ragione vitale: «L’umano sfugge alla ragione fisico-matematica come l’acqua dal canestro».

 

Il tema del nostro tempo

Nel 1923 Ortega y Gasset diede alle stampe un piccolo saggio destinato ad avere grande successo non solo in Spagna con continue riedizioni, Il tema del nostro tempo. Tant’è che nel 1932 egli scrisse un Prologo per gli Spagnoli e nel 1934, in occasione della terza riedizione in lingua tedesca, un dettagliato Prologo per i tedeschi. 

In particolare, nel primo prologo il filosofo spagnolo difendeva la sua scelta di essere riuscito ad essere «aristocratico tra la gente, in mezzo alle piazze», vale a dire di essersi espresso in modo comprensibile per il lettore a differenza della nebulosità usuale nella filosofia germanica. Nel secondo prologo mostrava il suo itinerario filosofico, le ragioni che l’avevano portato ad elaborare, contro il razionalismo e contro lo scetticismo, una filosofia della ragione vitale, una «filosofia  in cui la ragione è essenzialmente e radicalmente vitale ma non per questo, è meno ragione». E in entrambi i prologhi, senza mai nominarlo, rivendicava nei confronti di Heidegger, la priorità della propria scoperta che la vita è circostanza, cioè appartenenza a un dato luogo e a un dato tempo, ad un insieme di affetti e di emozioni che non possono essere definiti, ma solo raccontati: «in Germania questa verità è stata scoperta oggi, ma è un fatto incontrovertibile che è stata concepita in spagnolo vero il 1914».

 

Il problema della verità

Invogliano alla lettura del saggio e contribuirono alla fama del suo autore sia lo stile accattivante e scorrevole, la sua chiarezza “giornalistica”, sia la sua piccola mole, non più di una settantina di pagine. Il problema principale che il filosofo spagnolo affronta nel saggio è di quelli che fanno tremare le vene e i polsi, è nientemeno che il problema della verità. «Che cos’è la verità?», chiedeva già Pilato a Gesù, ricevendo come risposta un eloquente silenzio.

Ortega, con una gran bella metafora, osserva che «ciascuno esiste come naufrago nella sua circostanza». La vita, che è problematicità, inquietudine, insicurezza, ha bisogno di chiarezza, di sicurezza, di dominare sé stessa. Ha un radicale bisogno di verità. Per questo sorge il pensiero, che è «lo sforzo esasperato di un essere che si sente perduto nel mondo ed aspira ad orientarsi».

Se non ci sentissimo smarriti nel mondo, circondati da cose che a volte sono favorevoli e a volte avverse, il pensiero non esisterebbe:

«Il pensiero è quindi l’unico tentativo che posso e ho bisogno di fare per dominare la vita. (…) E non vi è neppure bisogno che il pensiero riesca nella sua impresa. Vedere chiaramente che l’enigma della vita è insolubile, che la sensazione di smarrimento non può essere guarita è già dominare il nostro destino, è sentirsi nella verità».  

Quest’ansia di far chiarezza sulle cose nella loro totalità ci consente di affermare che di pensiero in senso stretto non c’è che quello filosofico:

«Tutte le altre forme di intellezione sono secondarie, derivate da esso, oppure sono limitazioni più o meno arbitrarie dell’avventura filosofica. (…) Lo scienziato di solito non ha chiarezza sul resto della vita, un resto che è sempre il tutto». 

 

Scetticismo e razionalismo

Ma quali sono le posizioni che la filosofia ci offre nei confronti del problema della verità? Nella storia del pensiero si sono generalmente alternate due posizioni: il relativismo e il razionalismo.  «Come è possibile situare la verità, che è una e invariabile, nella vitalità umana che è per essenza mutevole e che varia da individuo a individuo, da razza a razza, da età a età?», si chiede Ortega. E prosegue: «Se ci atteniamo alla storia viva e seguiamo il suo suggestivo ondeggiare, dobbiamo rinunciare all’idea che la verità si lasci afferrare dall’uomo. (…) La verità, quindi, non esiste: non vi sono che verità relative alla condizione di ogni soggetto. Questa è la dottrina relativista».

Il relativismo, in buona sostanza, è scetticismo. Ma lo scetticismo, nota Ortega, è una “teoria suicida”, perché quando il relativista si rifiuta di ammettere la verità, egli è convinto che questa sua negazione sia vera. A questo filone, sia detto per inciso, appartiene quella che ci appare la parte più caduca della filosofia di Nietzsche secondo cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni e la vita vive di errori, di illusioni.

Ma la tendenza che più scorre in profondità nella cultura europea, a partire da Socrate e soprattutto dal Rinascimento fino al ‘900, è quella antagonista del razionalismo, che «per salvare la verità, rinuncia alla vita». Infatti:

«poiché la verità è una, assoluta e invariabile, non può essere attribuita alle nostre persone individuali, corruttibili e mutevoli. Si dovrà perciò supporre l’esistenza, al di là delle differenze che vi sono tra gli uomini, di una specie di soggetto astratto, comune all’uomo europeo e al cinese, al contemporaneo di Pericle e al cavaliere di Luigi XIV. Cartesio chiamò questo nuovo sostrato comune “la ragione”, e Kant “l’ente razionale”».

Ma, osserva Ortega, il razionalismo è antistorico: come spiegare la grande varietà di opinioni e di gusti, che a seconda delle età, delle razze e degli individui si è manifestata nella storia? E poi il razionalismo porta a una scissione nell’uomo: da un lato c’è la «nostra realtà storica e palpitante», la spontaneità della vita, dall’altro la razionalità, la spiritualità, la cultura.

L’ironia di Socrate ben rappresenta questa scissione tra vita e ragione: alle cose che nascono e scompaiono o si trasformano, egli oppone la perfezione e l’invariabilità dei concetti puri. Sennonché all’ironia di Socrate fa da contraltare l’ironia di Don Giovanni che in nome dell’eros, del desiderio, della sessualità, si rivolta contro la morale, e lascia «scivolare il suo cuore sulla molteplice femminilità» rinnovando «la sua perpetua avventura, dolce e amara».

 

Il prospettivismo di Ortega

Per Ortega il dissidio tra ragione e vita va invece ricomposto, riconoscendo che appartiene al vivere stesso una dimensione trascendente costituita «dal pensiero, dalla volontà, dal sentimento estetico, dall’emozione religiosa». Insomma, per il pensatore spagnolo non c’è spiritualità senza vitalità.

Riprendendo la critica di Nietzsche all’intellettualismo, di cui Socrate fu il primo grande interprete, Ortega afferma che il tema del nostro tempo consiste nel «sottomettere la ragione alla vitalità», nel «mostrare che sono la cultura,  la ragione, l’arte, l’etica a dover servire la vita».

È quella proposta dal filosofo spagnolo una visione più ampia, più articolata, che parte dalla vita di ciascuno, dalla necessaria coesistenza con le cose, dal drammatico confronto tra io e mondo. E la realtà non può che offrirsi in prospettive individuali, sicché  «tutte le epoche e tutti i popoli hanno posseduto la loro congrua porzione di verità».

Ogni popolo ed ogni epoca, anzi ogni generazione  – ed è questa una nozione fondamentale per Ortega, per comprendere il perché della storia, che è di continuo e sempre mutamento – ha una propria sensibilità vitale, che le consente di raggiungere alcune verità e di non percepirne altre:

«Da diversi punti di vista due uomini guardano lo stesso paesaggio. Eppure non vedono la stessa cosa. (…) Ognuno dei due uomini percepirà porzioni di paesaggio  che non arrivano agli occhi dell’altro. Avrebbe senso che ciascuno dichiarasse falso il paesaggio dell’altro? Evidentemente no; è reale  tanto l’uno quanto l’altro. E non avrebbe senso nemmeno che i due uomini, poiché i loro paesaggi non coincidono, si mettessero d’accordo e li giudicassero illusori. (…) La realtà, come un paesaggio, ha infinite prospettive, tutte egualmente veridiche ed autentiche. La sola prospettiva falsa è quella che pretende di essere l’unica». 

 

Una lezione per l’oggi

Oggi il razionalismo domina ancora il nostro tempo nella specie dello scientismo. Anticipando i rilievi critici mossi allo scientismo dai filosofi dell’ecologia (da Arne Naess a Rupert Sheldrake), Ortega trova le radici della fisica moderna e, più in generale, di un atteggiamento dello spirito che sopravvaluta la costruzione razionale a scapito della spontaneità e immediatezza della vita, nella filosofia di Cartesio: «L’entusiasmo di Cartesio per le costruzioni della ragione lo portò a realizzare un’inversione completa della prospettiva naturale dell’uomo. Il mondo immediato ed evidente che i nostri occhi contemplano, che le nostre mani palpano, che le nostre orecchie percepiscono, è composto di qualità: colore, solidità, suono ecc. Questo è il mondo in cui l’uomo era vissuto e vivrà sempre. Ma la ragione non è in grado di maneggiare le qualità.  Un colore non può essere pensato, non può essere definito. Deve essere visto. In altre parole, il colore è irrazionale. Al contrario il numero coincide con la ragione. Attenendosi soltanto a se stessa, essa può creare l’universo delle quantità attraverso concetti dai contorni chiari e ben marcati. Con eroica audacia, Cartesio decide che il vero mondo è quello quantitativo, quello geometrico; l’altro, il mondo qualitativo e immediato, che ci circonda pieno di grazia e di suggestione, viene squalificato e considerato in un certo senso come illusorio».  

 

L’utopismo figlio del razionalismo

Questo atteggiamento dello spirito di lì a poco avrebbe dominato nei salotti, nelle piazze e nei laboratori. È dal razionalismo che nasce il temperamento rivoluzionario che vedremo all’opera nel 1789 e nel 1917. Se infatti ciò che conta è la ragione, se è solo la ragione che può decretare come dev’essere ogni istituzione politica, allora le istituzioni tradizionali sembreranno inette e ingiuste, e il passato e il presente potranno essere soppiantati da un futuro costruito a tavolino. Sennonché, chiosa il filosofo spagnolo, «incominciamo a sospettare che la storia, la vita, non possa né debba  essere governata da princìpi, come accade nei libri di matematica. È un’incongruenza ghigliottinare il principe e sostituirlo con il principio».

La filosofia della ragione vitale, contro l’utopismo e contro il progressismo, ci permette di cogliere il senso della vita. E «il senso della vita non è altro che accettare ognuno la propria inesorabile circostanza e, nell’accettarla, trasformarla in una creazione nostra».

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