Con Balzac in BretagnaUn viaggio alle ricerca delle origini de “Gli Chouans”
di Alberto Dati
Durante l’estate del 1828 un giovane parigino nei guai, Honoré Balzac, decise improvvisamente di fare un viaggio. Il ragazzo, un originale ventinovenne in cerca di gloria, aveva scritto alcuni drammi teatrali di scarso successo, e aveva quindi intrapreso la carriera di editore, ottenendone un mare di debiti e molti grattacapi. Forse aveva bisogno di fuggire, di scomparire per un po’, di prendere aria e dedicarsi anima e corpo a qualcosa di grande, di importante, lontano dai creditori e dal bel mondo. Lo squattrinato Balzac aveva avuto un’idea che avrebbe cambiato completamente il corso della sua vita e delle sue opere: questa idea aveva come punto di partenza la Bretagna, e più precisamente la città di Fougéres, nel dipartimento di Ille-et-Vilaine, a più di trecento chilometri da Parigi. Balzac aveva infatti intenzione di scrivere un romanzo storico sul modello di Walter Scott, avente come sfondo storico le sollevazioni realiste (la Chouannerie) che ebbero luogo in Bretagna e Vandea a più riprese alla fine del 1700, all’indomani della Rivoluzione Francese e durante il Consolato e il Primo Impero. I bretoni, lealisti difensori “del trono e dell’altare”, organizzati attorno ad alcuni capi della nobiltà decaduta e del clero refrattario, dettero filo da torcere ai Blu, le armate repubblicane rivoluzionarie, attuando una guerriglia che diede non pochi pensieri alla neonata repubblica, fino a quando Bonaparte, Primo Console e successivamente Imperatore, pose fine ai moti reazionari con l’esecuzione del loro rappresentante più illustre, George Cadoudal, nel 1804. Proprio nei dintorni di Fougères ebbe luogo una storica battaglia tra repubblicani e realisti che costituirà l’incipit dell’intreccio.
Per scrivere il suo romanzo, Balzac doveva dunque toccare con mano i luoghi dove ambientare la sua storia: l’imperativo del realismo in letteratura lo obbligava a fare una cronaca quasi oggettiva, calando in un contesto storico e reale la relazione amorosa inventata di madame de Verneuil con il signore di Montauran. Bisognava raccogliere le testimonianze ancora vive dopo quasi trent’anni dai fatti, comprendere le fazioni, conoscere i luoghi geografici precisi, leggere i documenti ed esplorare il più possibile un periodo che aveva lacerato la nazione. Per far ciò, il giovane scrittore si ricordò di una vecchia conoscenza, il barone generale Gilbert de Pommereul, maresciallo dell’Impero decorato con la Legion d’Onore e la Croce di San Luigi, più grande di lui di una ventina d’anni; si trattava insomma di un pezzo grosso del vecchio apparato statale che aveva combattuto le più grandi battaglie napoleoniche: Austerlitz, Eylau, Heilsberg, Friedland, Erfurt, e che si era ritirato in pensione. I rispettivi padri erano stati amici in gioventù, e Balzac già da tempo era in rapporto epistolare con il barone per motivi economici. Non ebbe quindi esitazioni il 1° settembre 1828 a scrivere una lettera all’amico, ricordando i vincoli di affetto dei rispettivi genitori e chiedendo ospitalità per circa un mese nel castello bretone della cittadina di Fougères, che era appunto di proprietà della famiglia Pommereul (oggi è proprietà dello stato francese). Salutando il suo futuro ospite con grande amicizia e mettendolo a parte del suo progetto letterario, lo scrittore anticipava di essere a corto di denaro: gli sarebbe bastato “un lettino da campo, un materasso e un tavolo” in un’ala abbandonata del castello, che avrebbe pagato raccontando delle storie ai suoi ospiti fougeresi. In cambio, sarebbe tornato a Parigi con un bagaglio inestimabile: avrebbe conosciuto in prima persona i luoghi, gli intrighi e le battaglie combattute nel 1799 nei dintorni di Fougères tra realisti e repubblicani, e questo materiale sarebbe stato la base per la stesura del suo primo romanzo. Il barone rispose lapidariamente: “Venite presto, il vostro alloggio vi aspetta”. Il giovane intellettuale non se lo fece dire due volte, impacchettò le sue poche cose e in quindici giorni si presentò nella cittadina bretone. Vi arrivò a metà mese, accolto con provinciale schiettezza e calda ospitalità dal barone e dalla baronessa, la quale come vedremo sarebbe diventata una delle muse ispiratrici del futuro romanzo.
È giunto fino a noi un disegno del volto di un giovane Balzac, realizzato attorno ai suoi vent’anni da Achilles Devéria: il ritratto mi mette allegria, il soggetto ha il viso paffuto e i capelli arruffati, lo sguardo vivacissimo e ironico, il naso prominente e le labbra carnose e ben disegnate. È un ragazzo che ispira simpatia e vitalità, con quegli occhi penetranti che sembrano guardare il mondo con un certo disincanto. Me lo immagino ancora così quando arrivò in carrozza a Fougères, vestito in modo trascurato e un po’ trafelato, con un grosso cappello da contadino in testa, che suscitò la divertita sorpresa dei suoi nobili ospiti. Madame de Pommereul, “la bella castellana”, si affrettò a far confezionare nell’unico negozio di cappelli del paese un copricapo più consono al giovane parigino, che appena giunto – e mentre ancora non aveva visto i suoi alloggi – già intratteneva tutti con battute e storielle che facevano ridere gli astanti sino alle lacrime. Alla baronessa il ragazzo sembrò malmesso, affamato, ma dotato di spirito e allegro: notò che mangiava con ingordigia e che era completamente dedito al suo lavoro.
Balzac fu ospitato per circa un mese non dove avrebbe voluto, nel castello che ancora oggi è una delle più grandi magioni feudali d’Europa e che all’epoca era in rovina, ma nel più moderno e confortevole castello Bertin de La Hautière, sempre di proprietà del barone, che esiste ancora oggi trasformato in presbiterio, in place du Général-de-Lariboisière. Ma dovette frequentare anche il vicino castello di Marigny, appartenuto alla sorella di Chateaubriand che l’aveva venduto nel 1810 proprio al vecchio generale Pommereul e che compare nel romanzo sotto lo pseudonimo di Vivitière: qui si incrociano non soltanto le strade che portano da Rennes a Saint-Malo, ma anche i destini dei protagonisti del romanzo e le radici dalle quali è sorto il Romantisme francese ed europeo.
A La Hautière Balzac ebbe una stanza con due finestre alle quali spesso accostava un tavolo per lavorare e osservare le colline circostanti e il monte Pèlerine, teatro del sanguinoso scontro tra repubblicani e legittimisti nel 1799: quelle colline sarebbero diventate parte integrante del suo romanzo. Si alzava al mattino presto, passeggiava, cavalcava, esplorava le rovine del castello e le torri, percorreva in lungo e in largo le mura analizzandone gli anfratti, questionava con i contadini, cercava testimoni oculari degli eventi, beveva sidro con i paesani, cercava nella ricca biblioteca di Gilbert documenti utili, parlava con gli anziani e le nobildonne locali, vinceva le loro reticenze a parlare di periodi così sanguinosi, andava addirittura a messa la domenica per scrutare di nascosto i fougeresi, scriveva tutto il giorno e la sera, dopo aver mangiato voracemente, diventava il fulcro della piccola compagnia che lo ospitava, con i suoi racconti e gli aneddoti che poi sarebbero confluiti nella grandiosa Comédie Humaine. Lo immagino che passeggia nella valle del Cuesnon, ai piedi della chiesa di St. Leonard, e si arrampica tra le ginestre per scrutare la Mayenne o per misurare le distanze tra le case a graticcio e la chiesa di Saint Sulpice, prendendo appunti “come quegli originali che in viaggio portano con sé dei quaderni per appuntarvi le proprie idee”. Usava già il suo celebre bastone a 29 anni? Mi pare quasi di vederlo mentre arranca scarmigliato sulla ripida scalinata della duchessa Anna, come arrancavo io col fiatone nell’estate del 2023, cercando di ripercorrere l’esperienza balzachiana sulle mie gambe a quasi due secoli di distanza. Ho visitato molti dei luoghi di Fougéres in cui Balzac visse e ambientò il suo primo romanzo, ma il suo sguardo mi ha aiutato a vederli di nuovo e veramente: lui scrisse la sua opera tornato a Parigi, basandosi quindi su appunti e ricordi. Io ho letto il suo romanzo tornato a casa dalla Bretagna, basandomi su appunti, ricordi e qualche foto (lui usava i disegni). La memoria è servita a entrambi per definire il vissuto e trasformarlo in esperienza letteraria: sono entrato in contatto con la fucina creativa di Balzac percorrendo le stesse strade, osservando gli stessi panorami, inalando la stessa aria e affannandomi sulle stesse scale di scisto nero. Anche io ho bevuto il sidro e parlato con qualche oste: la mia permanenza è durata mezza giornata, la sua poco più di un mese.
A proposito di sidro, in Bretagna non si può parlarne senza citare le galette, la variante bretone delle crèpes francesi, impastate con grano saraceno. Sono quasi certo che a Balzac non piacessero, se a un certo punto nel romanzo le apostrofa come “pasto nazionale le cui tristi delizie non possono essere comprese che dai bretoni”. Il sidro invece appare spesso nel romanzo, bevuto dagli sciuani o conservato in grandi botti nella stanza principale delle case dei contadini. Non è dato sapere cosa abbia mangiato Balzac né cosa gradisse della cucina bretone: in fondo era un parigino un po’ snob, e tutti i parigini un po’ snob nei primi decenni dell’800 facevano un viaggio in Bretagna, che con le sue radici celtiche e l’attaccamento alla religione dei padri sembrava quanto di più sauvage e arretrato si potesse esperire a pochi passi da casa. Sono venuti da queste parti Merimée e Flaubert, Hugo, Tanguy, Cambry e du Boisgbey, e ovviamente i grandi autori bretoni, Le Goffic, Souvestre e Le Braz: alcuni erano interessati all’arte neolitica e gotica o alle leggende, altri erano funzionari ministeriali che compilavano cataloghi, altri ancora scrivevano qualcosa di molto simile alle guide turistiche dei nostri giorni o ne traevano impressioni fugaci e in fondo un po’ banali. Tutti però contribuirono inconsapevolmente a quella che per Catherine Bertho fu “l’invenzione della Bretagna”: nell’eterna lotta tra Voltaire e Rousseau, tra modernità repubblicana e ritorno reazionario alle origini, la regione cominciò all’inizio del XIX secolo a simboleggiare per gli scrittori francesi la provincia selvaggia, incolta, lontana dalla civiltà e per questo affascinante e romantica. Il clima, la natura del terreno, la lingua, il cibo e le case a graticcio: erano tutti segnali dell’arretratezza selvaggia degli abitanti della “cornovaglia francese”, della Bretagna che si rifiutava di imboccare la via del progresso. “La Bretagna è una vecchia ribelle”, scrisse Victor Hugo nel suo romanzo “1793”, anch’esso ambientato da queste parti. Si comprende bene come i castelli dirupati, le cattedrali annerite dalla muffa e gli oscuri racconti della Chouannerie diventarono terreno fertile per il nascente Romanticismo.
Anche il titolo dell’opera ha strettamente a che fare con il viaggio di Balzac in Bretagna. Lui l’avrebbe chiamata “Le Gars”, parola bretone intraducibile in italiano che ha la stessa radice di garçon (ragazzo), ma che era usata in gergo per identificare i controrivoluzionari. La signora baronessa, però, apprendendo questo titolo inorridì: a suo dire la parola era usata dal popolino e con accezione volgare, e non era per niente adatta all’opera prima del suo ospite parigino. In suo onore Balzac mutò il titolo in “Le Chouans, ou la Bretagne en 1799”, in questo modo placando le ire della baronessa. Nei decenni successivi anche il romanzo stesso (e di nuovo il titolo) fu rimaneggiato e “asciugato”: anche in queste occasioni, le variazioni furono suggerite da una donna che sullo scrittore aveva una certa influenza, Ewelina Hanska, la sua amante e moglie negli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento. Come scrisse Etienne Aubrèe, è probabile che durante la sua permanenza Balzac si sia intrattenuto in conversazione con altre nobildonne di Fougères, i cui caratteri sarebbero poi stati inseriti nel romanzo mutando i nomi. Sono supposizioni affascinanti, che purtroppo raramente trovano conferma nei fatti.
Non sappiamo di preciso neanche la data del rientro del Nostro a Parigi: all’inizio dell’Ottocento si poteva ancora viaggiare senza lasciare nessuna traccia di sé. Sappiamo però che gli addii con i Pommereul furono affettuosi e scorse anche qualche lacrima. Immagino gli abbracci, le solite promesse di rivedersi quanto prima, la commozione al partire della carrozza, il nitrire dei cavalli e il giovane autore pieno di scartoffie che guarda per l’ultima volta l’enorme mole del castello che si impone sulla natura della valle. A Novembre Balzac era sicuramente a casa, e scriveva lettere ai suoi ospiti bretoni, ringraziandoli di cuore e anticipandogli il lavoro sul romanzo, che sarebbe uscito nel 1829. Si augurava che madame non si sarebbe addormentata leggendolo, e dava alcune notizie importanti: avrebbe dato all’opera il titolo gradito alla baronessa, e la dedica al barone sarebbe apparsa in prima pagina, perché gran parte della trama derivava dai suoi aneddoti. Inoltre – cosa più importante – l’autore decideva finalmente di firmarsi con il proprio nome e cognome, e non con uno pseudonimo come aveva fatto fino ad allora.
Il viaggio in Bretagna aveva insomma restituito a Balzac la sua identità, il coraggio di apparire al mondo per chi era. Il ragazzo era finalmente diventato il poeta.
In moltissime occasioni, nei decenni successivi, Balzac espresse la volontà di tornare in Bretagna dai suoi ospiti. Chiunque ci sia stato almeno una volta coverà per sempre dentro di sé il desiderio di tornarci, posso assicurarlo. Le intenzioni si acuirono di certo nel 1830, quando – diventato nobile grazie alla Monarchia di Luglio – si mise in testa di candidarsi alle elezioni politiche di Fougères, chiedendo esplicitamente l’ospitalità e l’appoggio del barone per la campagna elettorale. Ci credeva davvero ed era convinto di essere eletto, al contrario del suo ospite. Quest’ultimo, in una lettera che ancora imbarazza il lettore a duecento anni di distanza, sconsigliò caldamente l’amico di candidarsi in città, adducendo scuse di tutti i tipi (ospiti a casa, lavori di ristrutturazione interminabili, ecc.) e augurandosi di poterlo aiutare in un momento più propizio.
L’ultimo scambio epistolare tra i due risale al 1846, e ancora una volta lo scrittore esprimeva al vecchio soldato il desiderio di tornare nella regione che aveva dato l’avvio alla sua carriera letteraria e che così fulgidamente risplendeva tra i ricordi di gioventù. Ma il destino aveva deciso altrimenti: quattro anni dopo, Honoré de Balzac moriva a Parigi, senza mai più riuscire a metter piede in Bretagna. L’aveva visitata solo quella volta nell’autunno del 1828, durante il quale – ancora ragazzo e inesperto – aveva conosciuto gli inconfessabili segreti di quel lembo estremo e orgoglioso di Francia.
Per approfondire:
Honoré de Balzac –Gli Chouans (Torino, 2022)
Jacques Cambry – Voyage dans le Finistère (Parigi, 1835)
Prosper Merimèe – Notes d’un voyage dans l’ouest de la France (Parigi, 1836)
Adolphus Trollope – Un été en Bretagne (Parigi, 2002)
Fortuné du Boisgbey – Voyage en Bretagne 1839 (Rennes, 2001)
Robert Du Pontavice De Heussey – Balzac en Bretagne (Rennes, 1885)
Etienne Aubrèe – Balzac a Fougères (Parigi, 1939)
Catherine Bertho – L’Invention de la Bretagne (Actes de la recherche in sciences sociales, vol. 35 n.1, 1980).
(In copertina il Castello di Fougères. All’interno, il ritratto di Balzac)
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