“L’anello che non tiene”: Contro una scuola della facilitazione
di Teresa Apone
Ero davvero una ragazzotta quando mi trasferii nel settembre dell’87 a Roma per affrontare i primi anni di università. Tanto dark, molto trucco; sbucavo dalla mia “provincia”, dal mio Sud tra imbranataggine, curiosità, speranze con quell’energia sperimentale tipica dei giovani.
“Cantieri del Nord”, a via del Corso, era una mia tappa preferita tra anfibi, anelli e ultime tendenze della moda. Non ho mai avuto paura di “osare” da ragazza. Con il mio fedele gruppo di amiche eravamo oltre. Oltre tutto, oltre Agropoli. Ed infatti, finito il liceo, non mi fermai. L’Università “La Sapienza”, fu il primo incontro culturale col mondo. Oltre alla fila chilometrica alla segreteria scoprii il teatro di Avanguardia, Peter Brook, lezioni in video di Eduardo sul teatro, Mastroianni, cinema e il primo esame di Letteratura Italiana. Per sostenete la parte finale con il docente ordinario di cattedra, si dovevano superare due pre-esami. In effetti l’impostazione era complessa e il programma vasto, pertanto lo si divideva in tre fasi, da tenere in più parti dell’anno. Il comico era l’argomento conduttore. E già qui: una rivoluzione, un ribaltamento.
Ma ho sempre avuto dimestichezza con le rivoluzioni come quella per l’immissione in ruolo avvenuta in un liceo sperimentale di Reggio Emilia.
Tutto mi ha formato e ho vissuto sempre con umiltà mista ad ardore le nuove prospettive che la vita mi ha proposto. Nel clima romano post- liceo, vivevo come una neofita, immersa un po’ in tutto, piacevolmente stupita di tutto.
In quel tempo, mi capitò, tra i tanti, un libro da studiare: ”Il comico nelle teorie contemporanee “ di Giulio Ferroni, edito da Bulzoni, che ho comprato ben due volte.
Un libricino con la copertina rosa, piccolo, che ha costituito, in parte, l’orientamento dei miei studi umanistici e letterari aprendo la mia formazione a dimensioni “altre”, alternative rispetto a quelle ufficiali, molto simili ai miei anfibi comprati in via del Corso.
Imparai, attraverso questo testo, a trovare un sostrato teorico a un filone letterario “sotterraneo” che guardava a quella faccia della letteratura che il linguaggio, i libri e la critica consueta avevano, volontariamente scalzato e surclassato. Era il filone “comico- realistico, genere che tuttora rimane esiliato o confinato a stralci e paragrafetti nei libri di testo. Qualcosa che trovava riscontro in seminari come “Una storia del riso i Giacomo Leopardi”. Un filo che permeava tutto da Malebolge da Dante a Baudelaire.
Il libricino era agevole, toccava Freud, Bergson, Pirandello, Bacthin… E spulciando la bibliografia in appendice e le note in calce ai capitoli, io andai a curiosare ancora. Diramai, approfondii e mi si aprì un mondo a ventagli intersecati e a colori. Quello che si dipana e infonde piacere quando gusti la gioia di studiare e l’appagamento della conoscenza. In parte lì ho seminato radici per la mia impostazione letteraria: Frye, Dionisotti, Mauron,Benjamin, il dadaismo. Quel libro aprì le porte ad un percorso che non è mai finito ed è ancora” in fieri”.
Dopo circa trent’anni ho avuto il piacere di ascoltare di nuovo l‘autore di quel testo, Giulio Ferroni, in una diretta streaming. L’ho gustata con voracità, nella prima parte che ho potuto seguire bene, e mi ha travolto ancora una volta l’energia e il fascino di quell’intellettuale. Oggi, a distanza di tanti anni, parlava di scuola, pandemia, ambiente. Di quali prospettive possa offrire la scuola oggi, in vista del futuro. La scuola concepita come avamposto della società e come preparazione e parte del mondo culturale.
In estrema e nuda sintesi la scuola oggi viene concepita essenzialmente “come subalterna alla crescita economica”. Una scuola, anni luce lontana dalla conoscenza, pronta, preconfezionata e voluta e al servizio dell’economia, delle aziende; volta a proporre informazioni da organizzare attraverso il mondo digitale. Questo il suo vulnus, l’impasse. “L’anello che non tiene” più una scuola culturale e formativa nel senso pieno del termine. Questo l’orizzonte che costringe la nostra gioventù a uniformarsi, lontano da quei ventagli e bagliori della mia generazione scoperti tra i libri. Una scuola volta alla “decimazione”. Una gabbia educativa tesa alla formazione del prodotto attraverso il contentino della facilitazione.
Da noi docenti si chiede un atto di coraggio, filtrarla, correggerla per l’amore dei libri sui quali ci siamo formati, con i quali siamo cresciuti e attraverso i quali siamo anche quello che siamo oggi.
La questione è semplice ed è questa, a noi il potenziale e la sfida.
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