Rileggendo Robert Brasillach
di Sandro Marano
Per anni Robert Brasillach è stato per me soprattutto un poeta, l’autore dei versi memorabili dei Poèmes de Fresnes e della Lettera ad un soldato della classe quaranta, l’intellettuale nutrito di studi classici e tuttavia moderno nei gusti e nello stile, che aveva saputo affrontare con rara dignità il processo sommario e l’esecuzione senza rinnegare le sue scelte politiche e ponendo al di sopra della vita stessa l’onore. Le sue opere letterarie, soprattutto i suoi romanzi, mai tradotti in italiano, mi erano sconosciuti con l’eccezione de I sette colori, che, per dirla tutta, non è un gran romanzo, al di là della sua innovativa forma letteraria con cui l’autore cercava di «superare la ricorrente crisi del romanzo tradizionale» (Roberto Alfatti Appetiti).
Ho dunque condiviso per lungo tempo il giudizio che Giuseppe Scaraffia aveva dato in una risposta ad un lettore apparsa su Il Sole 24 ore del 16 febbraio 2003 sotto il titolo piuttosto spicciativo: “Brasillach: eroe forse, grande scrittore no”. L’illustre critico osservava che «bisogna riconoscere i meriti di Brasillach: è stato un bravo critico cinematografico, ha cercato di salvare due esponenti dell’opposizione. Ha aiutato il marito ebreo di Colette. Ha rifiutato tre volte di fuggire. Al processo, pur conoscendo i rischi che correva, non ha mai rinnegato il suo passato… Per alcuni Brasillach potrà persino apparire un eroe, per altri un martire, per altri ancora semplicemente un uomo. La qualità letteraria di Brasillach è un discorso diverso, anche se ognuno di noi può apprezzare la vena di nostalgia che scorre tra le sue pagine». E concludeva con questo giudizio perentorio: «una condanna ingiusta non implica l’elevazione della vittima a una grandezza che non le appartiene».
Ora, io credo che questo giudizio vada non soltanto rivisto, ma addirittura ribaltato, soprattutto alla luce della lettura di Sei ore da perdere, il romanzo uscito postumo nel 1953 e meritatamente tradotto in italiano nelle edizioni Settecolori con la prefazione di Roberto Alfatti Appetiti.
Fin dalle prime pagine ci accorgiamo di trovarci di fronte ad uno scrittore di razza, ad un piccolo gioiello letterario, ad un romanzo che si legge tutto d’un fiato, scorrevole e affatto moderno nello stile, che scava nella vita e nell’animo dei personaggi, e il cui interesse non è stato scalfito dal tempo trascorso. Basti pensare al tema, purtroppo ancora attuale, della violenza sulla donna che compare nella narrazione.
L’inizio del romanzo, in cui il protagonista, Robert B. – alter ego dello scrittore – scende dal treno, ricorda vagamente un altro folgorante incipit, quello di Gilles nell’omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochelle. Non a caso il romanzo di Drieu – ed è quindi un omaggio voluto – è citato nel romanzo di Brasillach: è infatti uno dei pochi libri che il compagno di prigionia di Robert B., Bruno Berhier, tiene con sé nel campo, quasi che «andasse volentieri cercando il modello di un ragazzo duro, avido di vita, amato dalle donne».
Come Gilles, Robert B. è disorientato, solo, desideroso di ricominciare a vivere. Ma il contesto è assai diverso. Gilles si tuffa nella vita tumultuante e dinamica di una Parigi che offriva mille occasioni, in cui poter giocare il tutto per tutto con le donne, la politica, il giornalismo, l’avanguardia. Robert B. invece ha solo sei ore da trascorrere, in attesa della coincidenza che lo porterà in provincia, in una Parigi che sotto l’occupazione tedesca è profondamente cambiata da quella che lui ricordava nei lunghi mesi trascorsi nel campo di prigionia dopo la disastrosa sconfitta della Francia. È una Parigi in cui dominano l’arte di arrangiarsi, i sordidi intrighi del mercato nero, il dramma dei giovani francesi divisi sulle scelte politiche da fare nell’immediato, appena temperate dall’amicizia.
La missione che in quelle sei ore si propone Robert B. è quella di portare a Marie-Ange notizie di Bruno Berthier, l’uomo che durante una licenza di dieci giorni aveva vissuto un’intensa storia d’amore con lei e che, tuttora recluso nel campo di prigionia, non ha mai cessato di pensarla come a un prezioso rifugio.
Il romanzo acquista gradualmente l’andamento d’un giallo: scoprire chi è veramente Marie-Ange, il cui fascino risiedeva nel «dono d’infanzia eterna che sembrava aver ricevuto» e nel contempo fare luce sull’assassinio del suo ex marito. E la vera protagonista del romanzo diviene poco alla volta proprio questa donna, che nel racconto iniziale che gli aveva fatto Bruno Berhier appariva fragile e smarrita, segnata da un inesplicabile enigma, ma che dapprima nel racconto della titolare della pensione in cui la donna viveva, poi nel racconto di sé che gli fa la stessa Marie-Ange, finisce per apparire diversa dalla giovane di cui Bruno Berthier gli aveva fatto il ritratto, oscillando «costantemente tra la ragazza sfortunata e abbandonata, debolmente sottomessa a tutti i capricci del destino, e quella specie di demone testardo e freddo che sembrava perseguire, attraverso i meandri di un’epoca violenta, una volontà permanente, amara, forse cattiva». Sullo sfondo di un’epoca storica descritta magistralmente prende corpo e vita, attraverso una appassionante confessione esistenziale, una straordinaria e forte figura di donna.
(recensione pubblicata su Barbadillo dell’8 dicembre 2023)
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