Diario di un commosso viaggiatore di Alessandro Zaffarano, Milella, 2023
di Cosimo Rodia
La poesia di Zaffarano è come il vino, che matura col tempo, acquisendo rotondità nella parola e un bel bouquet emotivo.
Il “Diario di un commosso viaggiatore”, prefato da Daniele Giancane, contiene poesie scritte tra il 1977 al 2022, divise in quattro sezioni, secondo una linea diacronica; naturalmente, l’arco temporale di quarantacinque anni giustifica la evidente e riscontrabile differenza di stile, di contenuto e, ancor più, di condizione esistenziale.
La prima sezione consta di otto liriche (scritte tra il 1977 e il 1979), la scrittura sperimentale ha per fine quello di dare nome ai sentimenti; nel testo VIII, di ascendenza beat, si cristallizza, ad esempio, la difesa del diritto alla libertà.
La seconda sezione (1978-1995) contiene versi più maturi, legati al trasloco del poeta dalla terra di Bari al Salento; così, compie i primi consultivi, fissando lo scorrere del tempo, quale fatto ineludibile, sulla cui verità si stende un velo di malinconica ironia: “Devo mettermi in fila/per i sentieri a sud e ad est/e tuttavia/un giorno saremo dei”. Il Salento diventa il correlativo oggettivo della solitudine del poeta: “Muore la ferrovia/e il vento/spazza la pianura”; o ancora: “Rivoltatemi le tasche/e gli anni/e sfilacciati scampoli di sogni”.
Egli non è che “signore di questa solitudine”, originata sia dallo scorrere del tempo sia dal frantumarsi dei sogni: “Ci siamo divorati/fino alle unghie dei piedi/e sono uscito/dalla tua vita/cercando almeno/ di non sbattere la porta”. Quanta dolcezza nei gesti di cannibalismo!
Così si giunge, in “Detto e non detto”, al tema dell’incomunicabilità, in cui il dialogo è privo di comunicazione: i due dialoganti, infatti, rimangono distanti, da risultare la metonimia della solitudine.
La terza sezione, “Il viaggiatore di anime” (1982-2022), è costituita da 29 liriche, in cui il poeta perde l’ascendenza sperimentale della fase giovanile, e il canto diventa dolceamaro, con una visione esistenziale tangente al “Male di vivere”, con un ritmo rallentato, quasi come lo sciabordare del mare che richiama fallimenti: “La marea del tempo/ha sommerso/le costruzioni di una vita”; o, ancora, “la trama di una vita/che non si può più raccontare”.
Le poesie di questa sezione mostrano come davanti alla Storia, la volontà individuale non è che un granello travolto dai venti, col presente sempre da inventare. La “Controra” salentina è il riflesso esterno della condizione individuale di attesa, di silenzio, di sospensione. “Nel tempo nuovo/la mente si perde,/fatica a vedere/una nuova strada”. Sia il passato, sia il possibile futuro non sono capaci di tracciare un altrove, sicchè si rimane a galleggiare come sugheri, raccogliendo sconfitto. “L’aria di primavera non dà allegria”, siamo alla solitudine eliottiana (“aprile è il mese più crudele”) che porta all’afasia. Infatti, “gli sguardi rivolti/verso un altrove/che non è un passato/né un futuro”.
Di fronte a ciò, l’autore registra il suo paradosso, che dopo aver “navigato inconsci/di anime accidentate”, per guidarle a trovare loro la rotta, si ritrova egli stesso nel deserto senza bussola. Ecco, il “male di vivere” del poeta, e di cui se ne avvede quando la strada della vita s’è accorciata.
Così, Zaffarano partorisce un’eroica accettazione della morte per la sua ineluttabilità: “Non opporrò/nessuna resistenza/alla morte/non combatterò/per strapparle qualche giorno”. Il fardello della vita è guardato a viso aperto, specialmente quando il cuore trasporta “un sangue svogliato”; qui, evidentemente, non vi è un futuro anelato.
In “Presbiopia” e “Separazione” troviamo uno spirito più pacato, uno stile meno nervoso e un rasserenamento dell’anima, una maggiore adesione alle cose, una velata malinconica accettazione della vita, del tradimento e della morte di un amore, come in “Ti ho amata”.
Ci sono delle zattere che fermano la deriva? La poesia: “adesso sono tornato a te”, l’amicizia con la quarta sezione “Dediche”, e, forse, l’amore, col cui tema si chiude anche la raccolta.
Nella silloge troviamo un tormento esistenziale, con un incedere silenziosamente violento contro il destino o contro ciò che era atteso o ciò che sarebbe dovuto essere e non è stato. Con una espressione prosastica e a volte antilirica, col tono ora aggressivo, ora dimesso e disincantato, il poeta accetta che la Storia scomponga e ricomponga le cose terrene a suo piacimento.
A me pare che alla base dell’ultima poesia di Zaffarano, ci sia una montaliana visione dell’Io spettatore passivo della vita, di un divenire che non ci appartiene, in cui pensiamo di programmare il futuro e nel frattempo la vita scorre e presenta il conto della nostra solitudine, quando la strada è già percorsa interamente. Come non vedere in Zaffarano le negazioni montaliane di “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, per quel divenire in cui ognuno rimane eteronomo?
In questa visione di immobilità, nel continuo scorrere del tempo, c’è un tentativo di ristabilire un senso ai giorni rimasti da attraversare. Il poeta dialettizza la negatività sia nel distacco dal vivere (come se il poeta fosse uno spettatore), sia nella ricerca delle àncore di salvezza; tra quelle possibili, s’è detto, c’è sicuramente l’amicizia, una sorta di felicità nell’ora, senza passato e senza futuro, capace di rimuovere l’accidia; la poesia, capace di allacciare fili sottili della realtà per rappresentare in parte la breve commedia dell’esistenza e l’amore che potrebbe insorgere ancora e nonostante tutto, in tanta precarietà.
Una scrittura vigilata, specialmente nelle ultime due sezioni, con versi sinuosi, col ricorso a sinestesie, metafore, similitudini, personificazione (“La notte”) e con tocchi frequenti di enjambements, senza che mai il poeta cada nella compiaciuta ricerca stilistica.
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