Pavese: La donna come realtà e simbolo
di Sandro Marano
Il tema della figura femminile nell’opera di Pavese (1908-1950) è tra i più dibattuti dalla critica letteraria e va considerato sotto vari aspetti che comunque si sovrappongono. C’è in primo luogo il tormentato rapporto di Pavese con le donne via via conosciute ed amate; c’è poi la sua concezione della donna come donna-natura; e infine c’è la donna-maschera dietro cui si nasconde lo stesso Pavese.
Pavese e le donne
Uno dei primi amori dello scrittore adolescente è per una ballerina che lavorava ad un caffè-concerto di Torino. La ragazza gli aveva concesso un appuntamento al quale però non si presentò. Pavese rimase ad aspettarla per ore sotto la pioggia buscandosi una pleurite che lo tenne a letto per alcuni mesi. Questo episodio, tra l’altro, viene ricordato nella canzone Alice di Francesco De Gregori, laddove si dice: «Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina. E rimane lì, a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se ne va».
La prima donna che segna profondamente la sua vita è Tina Pizzardo, militante del partito comunista. Lui quando la conosce nell’inverno del 1932 ha ventiquattro anni e insegna nelle scuole superiori. Lei ha trent’anni ed è la compagna dell’antifascista Altiero Spinelli che si trovava in carcere. Pavese si innamora di questa donna dalla “voce rauca”, così volitiva e così sentimentalmente volubile. In Lavorare stanca la descrive così: «Non c’è uomo che giunga a lasciare una traccia / su costei. Quant’è stato dilegua in un sogno / come via in un mattino, e non resta che lei (…) Si schiude / il suo solido corpo, il suo sguardo raccolto / a una voce sommessa e un po’ rauca (…) Sorride da sola / il sorriso più ambiguo camminando per strada» (Un ricordo). Pavese aveva accettato di conservare in casa lettere compromettenti che vennero trovate durante una perquisizione. Dopo una breve carcerazione, lo scrittore fu condannato al confino a Brancaleone calabro, dove rimase meno di un anno essendogli stato condonato il resto della pena. Al ritorno dal confino dovette prendere atto che la donna si era legata ad altri uomini. La loro relazione finì definitivamente nel ’38 quando Tina Pizzardo si sposò con un polacco.
Nel ’38 Pavese incontra Fernanda Pivano, studentessa di lettere, sua ex allieva del liceo classico d’Azeglio di Torino. Pavese la introduce alla letteratura americana. Lo scrittore si innamora di lei e le chiede due volte di sposarlo ottenendo sempre un rifiuto. Sono dedicate a lei tre poesie di Lavorare Stanca: Mattino, Estate e Notturno. Questi versi sembrano preludere a quelli che scriverà più tardi recuperando pienamente la dimensione lirico-intimista: «Le parole che ascolti ti toccano appena / Hai nel viso calmo un pensiero chiaro / che ti finge alle spalle la luce del mare. / Hai nel viso un silenzio che preme il cuore / con un tonfo, e ne stilla una pena antica / come il succo dei frutti caduti allora» (Estate).
Nel 1945, Pavese conosce nella sede romana della Einaudi, Bianca Garufi. È la donna cui sono dedicati i Dialoghi con Leucò (1947), che resta certamente l’opera più controversa, ma anche la più amata dall’autore. Bianca compare nelle vesti della dea Leucotea (“Leucò” è infatti la traduzione greca del nome Bianca). Insieme scriveranno un romanzo “Fuoco grande” rimasto incompiuto. Compone per lei nel 1945 le poesie raccolte ne “La terra e la morte”.
Nel suo diario, alla data del 13 aprile 1951, Bianca Garufi scrisse: «Ricordo: scrisse la prima sulla poltrona della mia camera da letto; io ero sul letto e dormivo. Poi mi svegliai e lui lesse: “Terra rossa, terra nera…”. Mi piacque tanto e forse lo amai poeta per quel giorno. Io ero allora, davvero, buia come la terra. Povero Pavese, morto per Tina, per Fernanda, per Bianca, per Costanza. Quale di queste donne poteva salvarlo?».
L’ultima donna amata da Pavese è l’attrice americana Constance Dowling conosciuta a Roma nel capodanno del 1950. Si frequentano, ma lei aveva già una relazione con un altro attore e progettava di tornare in America. Costance gli ispirerà le poesie che scrive tra l’undici marzo e il dieci aprile del 1950 e che verranno trovate alla sua morte in una cartella, dove sul frontespizio sta scritto di suo pugno “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”. È il titolo con cui verranno pubblicate postume da Einaudi nel 1951 insieme a quelle de La terra e la morte. Successivamente saranno ritrovate due poesie datate giugno 1946 dedicate a Teresa Motta, affini per contenuto e stile a quelle di La terra e la morte.
Il suicidio dello scrittore
Il 17 aprile del 1950 Pavese aveva scritto a Costance una drammatica lettera che comincia così: «Carissima, non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute a te e se ne vanno con te». La notte tra il 26 e il 27 agosto 1950 in un albergo di Torino lo scrittore si toglie la vita. Non conta che sia al culmine del successo letterario, avendo da poco vinto il premio Strega con La bella estate. Sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò lascia due righe chiedendo di non fare troppi pettegolezzi. Invece pettegolezzi sugli amori sfortunati dello scrittore ce ne furono e, tra questi, l’ipotesi (suffragata da alcune annotazioni del Mestiere di vivere), di un Pavese sessualmente impotente, come anche l’ipotesi psicanalitica di un trauma infantile mai superato dovuto alla scarsa affettività della madre, trauma che poi avrebbe spiegato le sue scelte perdenti in amore.
Il 25 marzo 1950 nel Mestiere di vivere Pavese scriveva: «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla». Alle delusioni d’amore si erano nel frattempo aggiunte le critiche ingenerose di ambienti della sinistra comunista, cui si era legato. In una nota de Il mestiere di vivere infatti troviamo scritto: «“P. non è un buon compagno”… Discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore» (15 febbraio1950).
Pochi giorni prima del suicido lo scrittore prendendo atto del suo ennesimo fallimento sentimentale, scrisse: «E anche con lei finisce allo stesso modo. Anche lei. Va bene. Sono onde di questo mare” (14 agosto 1950).
La donna come natura
La donna per Pavese è innanzitutto oggetto di desiderio ed appagamento sessuale. Le figure di Concia e di Elena ne Il carcere sono a questo proposito emblematiche. In Lavorare stanca la donna appare anche come un possibile rifugio al suo male di vivere, al suo “vizio assurdo”: «Torneremo stanotte alla donna che dorme, / con le dita gelate a cercare il suo corpo / e un calore ci scuoterà il sangue, un calore di terra / annerita di umori: un respiro di vita» (Piaceri notturni). Ed ancora: «Solamente girarle, le piazze e le strade / sono vuote. Bisogna fermare una donna / e parlarle e deciderla a vivere insieme. / Altrimenti, uno parla da solo» (Lavorare stanca).
Ma la donna per Pavese non è solo una creatura in carne ed ossa, è anche e soprattutto simbolo di una realtà, che l’uomo cerca di afferrare e che gli sfugge. Simboleggia il mistero nella natura. Ed è insieme speranza e disperazione, amore e disamore, incanto e delusione. Tanto nelle poesie che nei romanzi la donna viene di volta in volta accomunata alla collina, alla vigna, alla nube, alla terra, all’acqua del mare, all’alba. «Queste dure colline che han fatto il mio corpo / e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio / di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla» (Incontro), scrive in Lavorare stanca.
La donna-natura è legata alla campagna, alla civiltà contadina, ad un’infanzia che si suppone, o si immagina, felice. È una figura presente nella memoria, nel desiderio di tornare al paese con i suoi caldi affetti: «Un paese vuol dire non essere soli», scrive in La luna e i falò. Ma nel contempo è lontana ed evanescente. Si fa mito, e il mito rivela il sacro, che si cerca nel ritorno al paese.
Il ritorno però in Pavese si conclude sempre con uno scacco. Non scalfisce il suo senso di sradicamento. Lo riporta comunque alla sua inguaribile solitudine: «Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più. Da un pezzo non c’erano più. Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato» (La luna e i falò). E in Lavorare stanca, che contiene tutti i temi fondamentali della sua narrativa – dalla sessualità al rapporto problematico campagna-città, dalla solitudine ontologica dell’uomo alla donna-mito e alla donna-maschera – scrive: «Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera / e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne» (Gente che non capisce). Si lascia la campagna per andare in città e trovare lavoro, ma quando si torna alla campagna si avverte un senso di vuoto. La nostalgia del paese vive nella distanza.
Realismo e simbolismo
Ricordiamo, en passant, che sotto l’apparenza d’una scrittura realista, o secondo alcuni in linea col neorealismo che allora andava per la maggiore, si cela il simbolismo. «Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo», scrive Pavese in una pagina del Il mestiere di vivere del 14 dicembre 1939.
Prendiamo Irene, Silvia e Santina ne La luna e i falò. Sono certamente donne reali, che vivono la loro vita con passione, con slancio e con la speranza di un futuro migliore, ma restano tutte e tre sconfitte dalla vita. Le loro vicende tuttavia si iscrivono simbolicamente tra la luna e i falò. La luna rappresenta il rassicurante avvicendarsi delle stagioni che governa i lavori agricoli: «Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, ogni stagione aveva la sua usanza e il suo gioco, secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia e il sereno». I falò d’altro canto rappresentano la festa, il rito di passaggio dal vecchio al nuovo. L’attesa di qualcosa di nuovo coincide con la sua tragicità.
La fine di Santina nel finale del romanzo si chiude con un falò che forse dissimula un senso di pietà. Come insegnava Jaspers, «tragico è quel conflitto in cui le forze che si combattono tra loro hanno tutte ragione, ognuna dal suo punto di vista». Lo scrittore non riesce a scegliere tra le due opposte ragioni. Scopre la poligonia del vero. «Nuto s’era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. – No, Santa no – disse – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo di sopra la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò». Il falò che avvolge Santina non porta al nuovo agognato.
La donna-maschera, tra amore e solitudine
Pavese, a volte, si nasconde dietro le figure femminili. Cosi nella poesia Gente che non capisce è Gella: «Anche Gella vorrebbe starsene, sola, nei prati, / ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi. / (…) Non far nulla, perché non c’è nulla che serva a nessuno». E nel romanzo Tra donne sole, che insieme a La casa in collina è una delle vette della sua narrativa, è nel contempo Clelia con la sua dedizione al lavoro e Rosetta che attua il suicidio.
Emerge a volte una certa misoginia, legata alle sue esperienze fallimentari e alle sue difficoltà di stabilire un vero e profondo rapporto d’amore, di cui fa cenno soprattutto nel Mestiere di vivere, ma che compare anche in alcuni passi dei suoi romanzi. In Tra donne sole, ad esempio, Clelia e le altre donne sono connotate negativamente, conducono un’esistenza placidamente borghese, sono piuttosto frivole, pettegole, poco sensibili. Clelia in particolare è sì una donna volitiva, emancipata, ma è tutta dedita al lavoro, è scaltra e, al di là dell’avventura con Beccuccio, non riesce a stabilire un rapporto duraturo con nessun uomo.
In una nota de Il mestiere di vivere Pavese aveva scritto: «Le mie storie non sono che storie d’amore o storie di solitudine» (30 agosto 1938). Non c’è che l’eros per uscire, o per tentare di uscire, dalla solitudine. Ma anche l’eros alla fine si rivela illusorio.
Le tre immagini della donna: donna-passione, donna-natura e donna maschera si intrecciano inestricabilmente nella sua opera. Nell’incipit de La casa in collina troviamo scritto: «Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. (…) non vedevo differenze tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni». La donna per Pavese è, per l’appunto, come la collina, “coltivata e selvatica”. È insieme dura e dolce, istintiva e calcolatrice, sentimentale e ambigua. È realtà e simbolo.
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