Cuore nero di Silvia Avallone, Rizzoli, 2024
di Gemma Acri Guido
Cosa? “Tutto”, garantisce l’assistente sociale ad Emilia. Perché si può morire dentro, ma si rimane comunque vivi.
Le fa eco la psicologa: «Ci sono buchi che non puoi riempire. Che resteranno lì per sempre, neri e profondi. Però, se vorrai, potrai costruirci una vita intorno. Come ricresce l’erba sul bordo del cratere (la ginestra leopardiana sul Vesuvio, ndr)».
“Fatti non foste a viver come bruti” chiosa la prof. d’italiano.
Inizio straripante di spunti di riflessione, per voi, in questa domenica spero soleggiata ovunque siate. Stiamo per inoltrarci, auspico meglio equipaggiati dei protagonisti, nell’ultima opera di Silvia Avallone: Cuore nero. Ci aspetta un lungo cammino tra flashback, a Ravenna e Bologna (rispettivamente luoghi di nascita e di detenzione di lei), e il faticoso ma suggestivo sentiero Stra’ dal Forche, che, attraverso un bosco di castagni, conduce a Sassaia, l’unico “dopo” possibile quando si crede di non meritare un futuro. «Se uno decide di vivere in un borgo spopolato è perché vuole lasciarsi alle spalle quella stagione della vita in cui gli eventi ti travolgono, ti stanano, ti cambiano». Una terrazza naturale e illibata spalancata sulla Valle, che respinge la gente di fuori ma difende con i denti chi gli appartiene. Un sacco amniotico senza eguali, consigliato da Mandel’štam, Cupido per le due solitudini al centro della narrazione: «Fuggiamo ad una stazione, ad un binario / dove nessuno ci possa trovare».
A narrare è Bruno, trentasettenne per cui si prevedeva una carriera prestigiosa in una qualsiasi università europea ma ora insegna in una pluriclasse delle elementari. Rimasto orfano e fratello minore in seguito a una strage, sa che chi è sopravvissuto è intoccabile (nell’imperdibile film “Il danno” del 1992 “Chi ha subito un danno è pericoloso, sa che può sopravvivere”).
L’unico altro abitante di Sassaia è Basilio, imbianchino col talento di un grande pittore, schivo e introverso, parla un italiano impeccabile e legge come un affamato.
Sono dispersi tra le montagne che si mangiano il cielo, fin quando, il 2 novembre del 2016, non irrompe Emilia ad innaffiare le loro esistenze ridotte a deserti.
Capelli rossi (che, a voler credere ai paesani, nulla portano di buono), occhi verde bosco screziati di giallo ma privi di luce come due stelle morte, madre morta di cancro dopo un lungo supplizio prima che lei potesse diventare adolescente, vittima di bullismo, problemi relazionali e dislessia, costose sedute da logopedista e musicoterapeuta. Questo prima della voragine che, a diciassette anni, l’ha inghiottita. Nell’indicibile e inesorabile seguito ci sono 5264 giorni di IPM, pensieri di suicidio come l’eroe piagato Filottete, azioni di autosabotaggio e “verboten” per rimanere aggrappata al magnete del passato e non ricominciare nel presente libero, dolore gestito con un rasoio usa e getta. Ha un cognome ironico, Emilia, di sveviana memoria: Innocenti.
La vita non chiede “permesso”, lui la trafigge nella sola zona demilitarizzata dell’anima che le è rimasta. Con lei, Bruno comincia a perdere pezzi di maschera e corazza («Non siamo i nostri traumi»), scorge di nuovo l’orizzonte. Ma non vuole diventare la soluzione a un vuoto e, trascorse le prime idilliache settimane, deve ammettere che non si può costruire da clandestini (vedi Mattia Pascal), senza famiglia, senza una storia.
Quando scopre, come noi lettori a metà libro, cosa lei “ha fatto”, la scaccia via. E la solitudine ci mette un attimo a tornare perché «quando sei stato felice, è molto difficile non esserlo più». Vuole Emilia, ma non ha le forze. Non è ancora pronto a vivere con lei qualcosa che sia davvero una vita. A “guarirlo” è un alunno (lo fanno, eh!), Martino Fiume, che non sa più dove mettere la rabbia. «Pensai che se c’era qualcosa che non potevo più aggiustare in me, questo non significava che non potessi aggiustarlo negli altri».
Lei, nel mentre, scappa a Milano, dal suo “esempio” Marta, sorella di carcere. Un giorno le arriva il messaggio di Bruno. Lui ha deciso, non si può amare qualcuno senza conoscerne tutta la storia, specialmente il nero.
Per lei è più complesso, è stata carnefice oltre che vittima: «Il male che subisci, adesso lo so, è molto meglio di quello che fai. Dal male che fai non c’è via d’uscita». Dovrà confessare ancora e saltare senza rete: «Perché non è che se una cosa non la dici, non esiste. Esiste di più. Esiste così tanto che respiri con un polmone solo perché l’altro è schiacciato, la gola è ostruita. Ma dirla significa sfilare un proiettile così ben conficcato che ormai fa parte del tuo organismo, i tessuti gli sono cresciuti intorno, le arterie lo hanno innervato. Estrarlo equivale a morire».
Il nostro viaggio termina al mare, siamo come le onde e non «una catena di cause ed effetti. Non funzioniamo come la gravità, la pioggia o un’addizione».
Se avessi dovuto fare l’editing di questo romanzo, avrei tolto qualcuna delle 360 pagine, specie quelle che arrivano alla mente (che non è poco) ma non entrano dentro. Per il fitto sistema dei personaggi (ai citati e tra i tanti, aggiungo il padre di Emilia e la sorella di Bruno) e gli svariati campi semantici (empatia, amicizia, fratellanza, desiderio, bullismo, detenzione, dipendenze, violenza su minori e donne, arte, vendetta, istruzione, amore), la Avallone mi è sembrata pretenziosa. Ma, nel complesso, ritengo che l’insieme sia servito all’autrice per smuovere delle ataviche questioni aperte ma soprattutto per affrontare con maturità il tema più ostico: il Male.
«Era l’amore la risposta. Se ami una persona, non puoi prescindere da quello che è ed è stata. Non puoi suddividerla in parti, scegliere solo quelle che ti fanno comodo. Devi accettarla intera. E io dovevo scrivere perché, in definitiva, le parole servono». Sublimare è un’ancora (Pascoli docet).
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