Nietzsche ecologista (parte terza)
di Sandro Marano
Se collochiamo storicamente la dottrina di Nietzsche nel complesso della filosofia occidentale, sulla falsariga di quanto ha fatto Karl Löwith (1), troveremo un altro importante riscontro alla tesi da noi sostenuta di una rivisitazione del suo pensiero secondo un’ottica ecologista.
La filosofia che accompagna il sorgere del mondo moderno è quella di Cartesio, che era solito paragonare le scoperte scientifiche a una serie di battaglie che si combattono contro la natura. Se nel Rinascimento l’uomo comincia a cantare l’elogio di se stesso – «il filosofo del Rinascimento è un artista che aspira alla filosofia» (2) – con Montaigne e con Cartesio l’attenzione si sposta dal mondo e da Dio alla coscienza, all’interiorità. In Cartesio si delinea nettamente la distinzione di fondo, ontologica, tra uomo e mondo, per cui l’uomo in quanto pensiero è immediatamente certo di sé, mentre tutto il resto, il mondo fuori di lui, è in sé incerto. Questa «spaccatura dell’essente nella sua totalità in due modi di essere divergenti» (3), domina d’ora in poi, con l’unica eccezione di Spinoza e in parte di Feurbach, la filosofia fino al grandioso tentativo di Nietzsche di rifidanzamento del mondo diviso.
Per la prima volta in Cartesio il mondo fisico e quello spirituale si separano: da un lato l’essere come esteriorità e dall’altro l’essere come intimità. «L’idea della soggettività è il principio basilare di tutta l’Età moderna» (4). «È questa – chiosa Ortega y Gasset – la magnifica, la decisiva scoperta di Cartesio, che come una gigantesca muraglia cinese, divide la storia della filosofia in due grandi parti: gli antichi e i medievali restano da un lato, dall’altro l’intera epoca moderna» (5).
Essa converte il mondo esterno in un mero pensato e «fa della filosofia moderna una cosciente contraddizione della nostra credenza vitale. Da Cartesio in poi, infatti, la filosofia fin dal suo primo passo,si dirige in direzione opposta alla vita con un movimento uniformemente accelerato, fino al punto che in Leibniz, in Kant, in Fichte, in Hegel, la filosofia finisce con l’essere un mondo visto a rovescio, una dottrina antinaturale (…) Il pensiero ha ingurgitato il mondo: le cose si sono risolte in mere idee» (6).
Sulla stessa linea di Cartesio si pone del resto Kant, che si affida esclusivamente alla ragione e scinde la totalità dell’essere in due parti irrelate, il noumeno e il fenomeno. Il celebre passo in cui parla del cielo stellato sopra di sé e della legge morale dentro di sé, a ben guardare, non fa che sancire questa separazione tra esteriorità ed interiorità. Per Fichte, iniziatore dell’idealismo, la natura è non Io, è ciò che si oppone allo sforzo morale dell’uomo e, dunque, è ciò che si può trasformare in utensili e comodità. Anche per Hegel la natura non ha alcun significato «originario, fondante e autonomo. Essa è l’esser altro dell’idea», malgrado egli cerchi di ripristinare nella mediatrice filosofia dello spirito la perduta unità di uomo e di mondo, di essere sé ed essere altro (7).
Ma è con Stirner e con Marx che si ha un’ulteriore e definitiva svolta. Per entrambi non esiste più un “mondo naturale”: per l’uno il mondo si trasforma in proprietà dell’Unico, per l’altro in semplice mezzo di produzione. «Quando Marx parla del mondo intende esclusivamente il mondo storico, dell’uomo che vive in società. Per il materialismo storico la natura non è sostanza originaria, bensì solo capitale dei rapporti di produzione storico-umani e dunque non diversa in linea di principio dalla proprietà di Stirner (…). Ciò che interessa Marx in una mela non è il fatto la natura produca tali cose in modo naturale, bensì il fatto che questo prodotto naturale sia stato coltivato dall’uomo in un determinato momento e in date condizioni economiche e sociali e che venga scambiato come merce in cambio di denaro (…). L’interesse esclusivo alla produzione è così comune all’uomo borghese e all’uomo comunista esattamente come il mondo nel quale essi agiscono e pensano producendo e consumando» (8).
Nietzsche, al contrario di Marx e Stirner, che «filosofano l’uno contro l’altro nello stesso deserto della libertà», riprende il cammino interrotto dalla filosofia moderna. Il punto di vista sovrastorico, che egli fa valere contro la sopravvalutazione della storia, evidenziando che alla domanda decisiva – “a qual fine si vive? – può rispondere altrettanto bene od altrettanto male sia un uomo del I secolo sia un uomo del XIX secolo, è una crtica alla concezione come continuo progredire, alle «magnifiche sorti e progressive», avrebbe detto Leopardi. La fede nel progresso, per Nietzsche, è una falsa prospettiva, è “un’idea moderna”, dal momento che il mondo è sempre esistito e ciclicamente diviene. Qualche secolo di storia in più o in meno non può infatti insegnare niente di veramente nuovo sull’essenza del mondo e dell’uomo. In questo grandioso tentativo di ricongiungere l’esistenza dell’uomo divenuto libero all’essere necessario del mondo che eternamente si ripete, sta, secondo Löwith, l’essenza e l’originalità della filosofia di Nietzsche.
E proprio da questo rapporto problematico tra l’esistenza dell’uomo e l’essere del mondo, che lo stesso Nietzsche definiva «la più tragica delle storie con una conclusione celeste» (9), prende l’abbrivio l’ecologismo sullo scorcio del XX secolo.
NOTE
Karl Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza 1982;
Ugo Spirito, La vita come arte, Sansoni 1948, p. 40;
Karl Löwith, op. cit., p. 143;
José Ortega y Gasset, Che cos’è la filosofia?, Mimesis 2013, p. 124;
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