L’interdipendenza nel vivere

di Sandro Marano

 

«Si  freta, si terrae pereunt, si regia coeli,

in chaos antiquum confundimur.»

(Ovidio, Metamorfosi, libro II, vv. 298-299)

 

«Se finisce il mare, se finiscono la terra e la reggia del cielo, torniamo alla confusione dell’antico Caos». È questa l’invocazione e insieme la velata minaccia che una Terra dalla voce infiochita (“sicca voce”) rivolge a Giove, perché Fetonte cessi di condurre i cavalli del sole. L’inesperta e forsennata guida di Fetonte aveva infatti prodotto ingenti danni: «Ecco che grandi città vengono distrutte con le loro mura e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni. Bruciano i boschi coi monti. (…) Fu allora che la Libia divenne un deserto (…) Il mare si contrae e dove poco fa c’erano distese d’acqua ora ci sono distese d’arida sabbia».

Al mito di Fetonte, figlio del dio sole, che incurante degli ammonimenti paterni, si mette a guidare il carro solare rischiando di ridurre in cenere tutta la terra, Ovidio dedica i primi 339 versi del secondo libro delle Metamorfosi. Com’è risaputo, Giove accogliendo la preghiera della Madre Terra pose fine alla vita di Fetonte con una folgore.

«La contiguità tra dèi e esseri umani – osserva Italo Calvino – è uno di temi dominanti delle Metamorfosi, ma non è che un caso particolare della contiguità tra tutte le figure o forme dell’esistente». Il mito di Fetonte corrisponde infatti perfettamente «alla sola, certa filosofia delle Metamorfosi», quella della unità e parentela di tutto ciò che esiste al mondo, cose ed esseri viventi.

La filosofia dell’interdipendenza di tutte le cose e del loro limite naturale, che Ovidio desume dal pitagorismo, lo spinge coerentemente a professare nel XV ed ultimo libro del poema la scelta vegetariana.  L’elogio della figura di Pitagora fa quasi da pendant a quella di Epicuro nel De rerum natura di Lucrezio:

«Qui c’era un uomo, nativo di Samo, ma che da Samo era fuggito e dai suoi signori, e che per odio  della tirannide viveva in volontario esilio. Costui avvicinò con la mente gli dèi, per quanto sperduti nelle profondità del cielo, e ciò che la natura sottraeva agli sguardi umani, lo colse con gli occhi dell’intelletto. (…) E per primo denunciò come una vergogna che s’imbandissero animali sulle mense».

Subito dopo mette in bocca a Pitagora queste parole: «Astenevi, o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d’uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose (…) e nessuno vi proibisce il latte e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e di sangue (…)».

A ben vedere, il principio dell’interdipendenza di tutte le cose, insieme a quello di limite, che è parimenti desumibile dal mito di Fetonte, come pure da altri miti trattati nel poema, lo ritroviamo pari pari nell’ecologismo. L’uomo moderno, che pensa di potersi sostituire a Dio e alla natura vivente, ignorando i limiti, consumando suolo, avvelenando la terra coi pesticidi, procreando a dismisura, è per certi versi simile a Fetonte e non si accorge, o finge di non accorgersi che sta correndo verso il baratro. Ha disimparato che «l’acqua ha dèi azzurri» e che «la terra nutre uomini e città e boschi e animali e fiumi e ninfe con le altre divinità della campagna». Non ascolta le ammonizioni e le preghiere. Come Medea può dire di vedere il meglio ed approvarlo, ma di seguire ciononostante il peggio («Video meliora proboque, deteriora sequor», libro VII).

 

 

 

 

 

 

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