Wislawa Szymborska tra successi e perplessità
di Maria Pia Latorre
“Avrei preferito non parlare con la Storia, ma la Storia è venuta da me”, queste parole della poetessa americana Joy Harjo sarebbero forse molto piaciute a Wislawa Szymborska e ben si addicono alla visione che si è andata costruendo della sua opera.
La grandezza della Szymborska ci è arrivata come una eco, quando nel 1996, tanta fu la sorpresa per l’assegnazione del Premio Nobel, attribuito all’esile donna dell’Est, fuscello dall’espressione appuntita ma ad un tempo rassicurante, come sa esserlo la nonna della porta accanto.
La sagoma iconica che di lì a poco ne è scaturita è un perfetto cocktail di simpatia e mistero; così l’elegante donnina con cappellino e occhialini ha fatto il giro del mondo imprimendosi nell’immaginario collettivo come l’apprezzata poetessa che oggi conosciamo.
Un successo che è andato sempre più crescendo, vuoi per la straordinarietà della sua parola, vuoi per la diffusione dei mezzi di massa, tanto che oggi la ritroviamo in territori sempre più inaspettati, lontani dal mondo della poesia, come nel film “Cuore sacro” di Ozpetek, dove, dalla borsa del personaggio della ladra, salta fuori un suo libro di poesie, o come in una canzone di Jovanotti o in numerosi romanzi in cui viene spesso citata. O come fa la scrittrice polacca Olga Tokarczuk (anche lei premio Nobel), che per stima e profonda amicizia ha regalato ai lettori tanti aneddoti e ricordi legati all’insigne connazionale. Wislawa era brillante, imprevedibile, scanzonata, bizzarra e amava i romanzi di Olga. Molte le affinità tra le due scrittrici, dall’anticonformismo alla comunanza nelle scelte di vita, dalla stretta relazione con la natura e gli animali all’originale capacità d’indagine di topoi come il mito, la storia, il viaggio e il sogno.
È certo che la Szymborska è stata una colonna portante della letteratura del secolo scorso, divenendo, nell’ultimo ventennio, un vero e proprio caso letterario, così come è certo che il futuro non potrà prescindere da lei.
Il nobel russo Brodskij l’annovera insieme a Milosz ed Herbert tra i maggiori poeti polacchi di tutti i tempi e considera la poesia “La fine e l’inizio” tra le cento migliori poesie del secolo. La stessa Anna Achmátova stringe con lei amicizia e ne traduce i testi permettendone una circolazione negli ambienti culturali russi. Le poesie della Szymborska cominciano così a diffondersi prima nell’Europa dell’Est, soprattutto in Bulgaria, poi in Francia, dove la poetessa si reca per scambi culturali.
In Italia viene accolta favorevolmente grazie all’intuizione dell’editore Scheiwiller e alla caparbietà del poeta e letterato Pietro Marchesani, che ne diventa il fedele traduttore. È del 1993 la “Fiera dei miracoli”, il primo volume pubblicato da Scheiwiller, ormai raro e fuori commercio, contenente poesie provenienti da raccolte diverse della polacca. Tra Marchesani e Szymborska nasce una bella amicizia che, nel corso degli anni, si arricchisce di reciproche visite e che fa del polonista il suo traduttore ufficiale in Italia.
In patria, invece, a partire da “Per questo viviamo”, le raccolte, undici nell’arco di un cinquantennio (davvero poche, in verità) sono state accolte da alterne sorti e questo si spiega soltanto accostando la biografia dell’autrice alle vicende politiche della Polonia, soprattutto a partire dagli anni del secondo conflitto mondiale e ancor di più, dal 1952, anno in cui Szymborska si iscrive al Partito Operaio Polacco, fondato solo quattro anni prima.
Wislawa nasce a Kornik, il 2 luglio 1923. La tenacia e l’impegno politico la portano a conoscere intellettuali e scrittori tra i quali Adam Wlodek, che sposa nel ‘48 e con cui va a vivere presso un ostello di letterati. Da lui divorzierà sei anni dopo. Nella Casa degli scrittori sperimenta la vita di comunità e inizia a comporre limeryck (testi poetici nonsense). A Wlodek si era rivolta per far pubblicare le sue prime poesie, ma, ritenute troppo brutte, vennero cestinate o tagliate e rimaneggiate.
“Szukam slowa” (Cerco la parola) è la prima poesia in assoluto, pubblicata nel ‘45 su Dziennik Polski; ad essa faranno seguito numerose altre poesie che confluiranno nella prima raccolta “Per questo viviamo”.
La tessera del Partito Operaio Polacco le apre la strada alla carriera di redattrice prima e di direttrice poi presso la rivista nazionale Życie Literackie (Vita letteraria), così come la restituzione della stessa tessera, nel 1966, la chiude. Szymborska viene prima declassata e poi licenziata.
Dietro la tessera di partito tutta la vicenda politica ed esistenziale della poetessa, che in un primo momento crede nel socialismo reale di matrice sovietica, ma lentamente comincia a prendere le distanze dalla politica di governo del suo Paese, fedele stato satellite dell’U.R.S.S.
Quando, il 14 gennaio 1964, un gruppo di intellettuali polacchi, guidato da Antoni Slonimski, firma una Lettera contro la censura e la limitazione della libertà di parola dei sistemi totalitari, Wislawa si schiera con il governo, aderendo ad una raccolta di firme che rema contro la Lettera. Per oltre un decennio Szymborska aveva dato il suo pieno contributo alla propaganda di regime e aveva goduto dei benefici dell’attività di stalinista convinta, ma è l’ultima volta che sta dalla parte del regime.
Un altro episodio ben più grave era accaduto nel ‘53, quando aveva appoggiato il processo intentato contro alcune decine di sacerdoti di Cracovia accusati di spionaggio in favore degli Stati Uniti. Il processo si era concluso con tre esecuzioni e numerosi ergastoli.
Possiamo solo immaginarlo l’intimo dramma che la scrittrice si trova a vivere, se è vero che vietò per sempre la ripubblicazione e la diffusione delle sue due prime raccolte “Per questo viviamo” e “Domande poste a me stessa”, e più volte cercò di giustificarsi pubblicamente per quel passato politico che visse, in seguito, come un’onta sulla coscienza.
E questi sono probabilmente i motivi per cui in patria non è stata mai pienamente apprezzata, soprattutto rispetto all’altro grande suo contemporaneo: Czeslaw Milosz, il quale preferì l’esilio all’asservimento al regime, dando prova di coraggio e coerenza e che oggi, a tributo dell’intera nazione, riposa a Cracovia, nella Cappella di San Stanislao, accanto alle altre illustri personalità del Paese. Tale privilegio non sarà attribuito alla Szymborska, che riposa modestamente nella tomba di famiglia.
Possiamo condividere la solitudine della poetessa, combattuta tra ruolo e coscienza, alla ricerca di una coerenza che le avrebbe permesso di costruire una nuova scrittura, ma solo dopo aver sciolto i nodi dei condizionamenti che la tormentavano.
Libertà che si conquistò con fatica, a pugni serrati, una sigaretta dopo l’altra (era accanita fumatrice) cominciando con l’abbandonare, nel 1963, la comoda Casa degli scrittori, ritenuto ormai covo di regime, per andare a vivere da sola in un appartamento che ribattezzò “il cassetto”, a causa delle microscopiche dimensioni.
Forse sentì, periodicamente, freddezza e isolamento intorno a sé, tanto che spesso tornava a Kornik, sua città natale, dove poteva sempre contare su un gruppo di fedeli estimatori che la apprezzava.
Poi venne la stagione del disgelo, coincidente con i primi viaggi in Europa occidentale. Wislawa prende sempre più le distanze dal governo, tanto che le viene vietato di uscire dai confini nazionali. La poetessa non ama viaggiare e accetta di buon grado. Dirà che in tal modo evita noiose premiazioni e asfittiche serate cerimoniali.
Prende sempre più le distanze dalla politica attiva e, anche se invitata, negli anni Ottanta decide di non iscriversi a Solidarnosc, sindacato dei lavoratori fondato da Lech Walesa, dichiarando di voler essere semplicemente una simpatizzante. Anche questa decisione viene giudicata negativamente dall’opinione pubblica. In quegli stessi anni inizia per lei la stagione dei premi, che la porterà al successo letterario sia in patria che all’estero fino all’assegnazione del Nobel.
Come non riconoscere la grandezza poetica della Szymborska?
Certamente il suo maggiore merito è legato alla capacità di parlare universalmente e di parlare ad ognuno di noi senza mai dare risposte certe, ma utilizzando il metodo del problem solving, ponendo, dunque, domande profonde che ci vedono tutti intimamente coinvolti.
Ma cosa ce la fa tanto amare? Szymborska ha posto nella sua poesia ingredienti vincenti, che tengono inchiodati al testo, a partire dalla semplicità del linguaggio che aggancia una complessità che compare improvvisa, all’accettazione della vita, vissuta sempre con meraviglia e mai con angoscia e disperazione, al contatto continuo tra quotidiano ed assoluto, al tono colloquiale che le permette di entrare in immediato dialogo col fruitore.
Il suo profilo poetico scivola su una leggerezza mentale ed espressiva, tra vitalità e brillantezza, con caratteristiche di unicità, a partire dall’autoironia, all’ironia, alle catene di nessi che elegantemente sa collocare nei sui testi, alle costruzioni dei paradossi, ai cambi di tono, ai ribaltamenti semantici e di prospettiva, creando, così, strutture poetiche che rasentano la perfezione.
Sono persuasa che il lavoro di cesello che Szymborska ha compiuto sulla sua parola non sia stato un lavoro di potatura e asciugatura, quanto piuttosto una precisa ricerca per sostituzione ed aggiustamento, come si fa con i pezzi di una scacchiera durante una partita.
L’algido rigore dell’Est ha fatto da legante regalandoci testi come “Foglietto illustrativo”, “Un parere in merito alla pornografia”, “Autotomia”, “La cipolla”, “Pi greco”, “La mappa” e tanti altri capolavori che restano pietre miliari della letteratura mondiale.
Salutiamo la sublime “virgola antiquata” con alcuni versi tratti da “La mappa”, una delle sue ultime, pubblicata in Italia da Adelphi, nel 2012, anno della sua morte: «Amo le mappe perché dicono bugie./ Perché sbarrano il passo a verità aggressive./ Perché con indulgenza e buon umore/ sul tavolo mi dispongono un mondo/ che non è di questo mondo».
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