Papini caustico e contro la banalità
di Sandro Marano
Giovanni Papini (1881-1956) fu insieme a Giuseppe Prezzolini e ad Ardengo Soffici uno dei protagonisti del rinnovamento culturale e artistico dei primi del ‘900 italiano contribuendo attraverso la fondazione delle riviste, dal Leonardo (1903-1907) a La voce (1908-1916) e a Lacerba (1913-1915), all’affermazione delle avanguardie storiche, nonché alla diffusione del neoidealismo di Croce e del pragmatismo di William James.
Un uomo finito (1913), scritto da Papini a trent’anni, viene considerato da alcuni critici il suo capolavoro. Noi però gli preferiamo l’irriverente Il crepuscolo dei filosofi (1906), le Stroncature (1916) e tanti dei suoi racconti pubblicati in varie raccolte, in particolare le cosiddette “novelle metafisiche” (citiamo, ad esempio, L’astronomo), che furono molto apprezzate da scrittori e poeti come Borges. Non possiamo non osservare che in Un uomo finito ci sono lungaggini, pagine di straripante verbosità, improntate ad un egocentrismo insopportabile, per non parlare dei pregiudizi affatto gratuiti e insostenibili sulle donne. La cifra propria di Papini è senza dubbio la stroncatura, l’invettiva, l’osservazione corsara. Non a torto dice di sé: «Io sono un poeta e un distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico (…) Qualunque sia il governo del mondo sarò sempre all’opposizione. L’espressione naturale del mio spirito è la protesta, la mia figura preferita è l’invettiva e l’insulto».
Un uomo finito, cinquanta capitoli ripartiti in sei tempi musicali (andante, appassionato, tempestoso, solenne, lentissimo, allegretto) è, come dichiara l’autore stesso, la storia di un’anima, di un’anima che, forse per reagire ad un’infanzia triste e solitaria nella quale ebbe come suoi compagni unicamente la campagna e la biblioteca, anela alla grandezza, si inebria, delira e precipita nello sconforto e nel nichilismo. Oltre non ci sono che la follia o la conversione. E la conversione al cattolicesimo giungerà puntuale e a sorpresa nel 1921 con la pubblicazione della sua Storia di Cristo. La realtà prevale sempre sulle nostre velleità. Come osservava Ortega y Gasset, «la realtà è l’unico vero pedagogo e governante dell’uomo».
Degne di nota sono le pagine che Papini dedica all’entusiasmo che accompagnò la fondazione del Leonardo (i capitoli da XV a XVIII) e al suo percorso filosofico (i capitoli da XI a XIV e XXVII e XXVIII). A questo proposito valga il giudizio che Benedetto Croce nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915 esprimeva su Papini: «Il suo itinerario, con i suoi errori di ogni sorta (…), il suo perenne scontento, il suo irritante oscillare, sono lo specchio di un’inquietudine che pure non è meno significativa di altre parventi sicurezze».
La volontà di potenza, che Papini riprese dal filosofo Nietzsche, lo porta ben presto a coltivare una sorta di pragmatismo magico, al delirante progetto cioè di possedere e trasformare a suo piacimento il mondo, ad una sorta di «esaltazione mistica dell’azione per l’azione, che avrebbe dovuto dare al novello uomo-dio il possesso del mondo» (Norberto Bobbio).
Il fallimento esistenziale che seguì trova la sua espressione nel capitolo XLVI, certamente il più bello e pregnante del libro e meritevole senz’altro di lettura, intitolato significativamente “Il ritorno alla terra”. Papini qui prende atto di non essere “un uomo metafisico”, di essere nato in un certo posto, di appartenere ad una certa razza, di avere dietro di sé una storia e una cultura. Di dover, per ritrovare se stesso, riprendere contatto con la sua terra natia, la Toscana: «la vera patria di ciascuno non è già il regno o la repubblica a cui appartiene. L’Italia è troppo grande per ciascun italiano: la patria genuina non può che essere piccola (…). Quando dico Toscana io intendo prima di tutto il paese toscano, i monti i poggi, i fiumi, questo pallore contorto d’olivi, queste lancie nere dei cipressi (…) Eppoi intendo per Toscana i grandi toscani e il loro genio (…). Ritrovare me stesso significò dunque ritrovare la Toscana nella sua campagna e nella sua tradizione».
Il ritorno alla terra prelude già alla futura conversione, alla sua adesione al regime fascista e a quella svolta tradizionalista, che alcuni critici definiscono reazionaria e che informerà l’autore fino alla fine dei suoi giorni.
Nel panorama letterario italiano Papini ha certamente un suo posto non foss’altro perché, come confessa in Un uomo finito «in un mondo dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura».
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