Il fascino della poesia nel bambino: “La poesia per l’infanzia in Italia dal Novecento ad oggi” di Cosimo Rodia, PensaMultimedia
di Hervé A. Cavallera
(Università del Salento)
La lettura del testo di Cosimo Rodia sulla poesia dell’infanzia in Italia dal Novecento ad oggi, mi spinge inevitabilmente a ripensare alle tante poesie che ho dovuto leggere e imparare a memoria frequentando la scuola elementare e medie. Tante, e apprese a fatica, anche quelle che mi piacevano, perché l’esercizio della memoria implica sforzo, e dentro e fuori di casa percepivo altra vita che mi chiamava. Per tale aspetto, sono rimasto sempre stupito della facilità e rapidità con cui i miei figli hanno imparato le poesie. Figuriamoci poi al liceo, dove una pur brava insegnante voleva che noi imparassimo a memoria L’addio ai monti dai Promessi Sposi del Manzoni…
Per i brani di Dante, da Paolo e Francesca a Farinata a Ugolino, ah!, sì, erano altra cosa. Nonostante ciò, ossia nonostante il mio ricordo della frequenza scolastica sia tutt’uno con il lavoro che essa implicava, impedendomi talvolta di leggere ciò che allora volevo, è chiaro che giudico non solo positivo, ma necessario l’esercizio della memoria, quella antica arte che serviva ai grandi retori del passato e che, in fondo, ci aiuta non poco a costituire la nostra identità.
Di qui alcune considerazioni che in parte mi riguardano, ma riguardano me come oggetto, come mi ricordo.
La poesia e la scuola
Servivano solo a esercitare la mnemotecnica le poesie? Ho frequentato la scuola elementare in età pre-rodariana e le poesie che ricordo di più, di là da alcune filastrocche, sono quelle legate ai grandi nomi dei classici, soprattutto Carducci e Pascoli; Palazzeschi e Saba e altri, tra cui D’Annunzio) credo di averli dovuto imparare a memoria nella media, dove si voleva che imparassi anche l’ode il Cinque maggio del Manzoni, stupenda poesia, ma lunga per poterla ricordare.
Del resto, la struttura del testo scolastico delle elementari era concepita, come si ricorderà, in maniera tale che si percorreva l’anno: ad esempio, il mese di novembre sollecitava verso poesie tristi, in occasione del giorno dei morti, ed epiche in occasione della ricorrenza della Grande Guerra. Sotto questo aspetto Pascoli si prestava ad una serie di letture struggenti, che andavano ben oltre la ricorrenza dei defunti: da La cavallina storna a X agosto. San Martino di Carducci riusciva, invece, a farmi percepire come non mai l’atmosfera, mesta e virile di novembre, di un tempo che finiva per poi rinascere, come quel mosto che diveniva vino. E a Natale c’erano Le ciaramelle di Pascoli. Dalle mie parti, nel Basso Salento non sono mai venuti gli zampognari, eppure quella poesia, invero come altre, faceva tanto Natale. La televisione non era molto diffusa, negli anni Cinquanta, e i bambini potevano molto volare con la fantasia. Bastava avere dei libri (e i fumetti). Io li avevo, ma c’erano i compiti. E tuttavia quelle poesie erano sentite sì come fatica, ma mai come inopportune. Mai percepite come inutili, e questo non tanto perché allora era insito nell’animo che si dovesse studiare sodo e andare avanti, ma perché esse evocavano un’atmosfera e io ne sentivo il fascino. Erano non solo belle poesie, ma poesie educative.
Certo, oggi si può discutere dell’impostazione della scuola del tempo e del ruolo stesso di quelle poesie o di quelle prose che allora si leggevano. Altri tempi, indubbiamente e, come sempre accade, irripetibili. Chissà perché (ah!, il liceo!) mi vengono alla mente i versi di Villon: Mais ou sont les neiges [et les femmes] d’antan? Il pensiero viaggia; oggi si dice naviga. A me piaceva un po’ viaggiare e fantasticare, forse quanto era giusto.
Poi c’era il cinema, d’antan anche quello. Le trasmissioni televisive erano più di gruppo, un passatempo (Il Musichiere, Lascia o raddoppia) che si apriva e chiudeva, non mi facevano sognare. Trascorrevo del tempo con amici, partecipavo, poi tutto finiva.
Ma torniamo alle poesie e alle poesie della mia scuola elementare. Sono poesie che oggi i bambini non leggono più, anche perché si legge poco. Ci sono internet, facebook; si mette tutto in rete, anche i sentimenti, anche le inezie. Così si legge poco e male, e gli studenti imparano poco e male, non tutti, si capisce – generalizzare è sempre molto azzardare e molto semplificare –, ma è chiaro che l’età della comunicazione diretta e telematica lascia poco tempo alla lettura in penombra e alla meditazione. Per rendersi conto di tutto questo, è sufficiente considerare le mail che inviamo. Sono piene di errori, refusi, sviste… Dipende da noi… da virus…? Non ha importanza. Nessuno ci fa più caso. Si capisce che sono errori dovuti alla fretta, e non ci pensiamo più. Non pensiamo più a tante cose; del resto il tempo per pensare seriamente si riduce molto per chi lavora e per chi non lavora c’è solo disperazione.
Lasciamo stare…, le poesie? Ho detto che, di là dal fatto che esercitavano la memoria, erano poesie educative, ossia delle poesie attraverso le quali la generazione adulta formava, indirizzava quella più giovane. Non erano fine a sé stesse. Inducevano a buoni sentimenti, alla percezione della fragilità della vita e al bisogno dell’impegno. Poi erano sapientemente costruite. Il fatto che continuino a piacermi vuol dire che non erano per nulla infantili, anche se il bambino sapeva percepirne il messaggio più appariscente. Erano poesie complesse che conoscevano le segrete strade dei sentimenti.
A me sembra che le poesie scolastiche, cioè le poesie che si imparano a scuola debbano tuttora avere un valore educativo, come tutto quello che è nella scuola, altrimenti non hanno senso ad essere in quella istituzione. Di conseguenza, la loro funzione è quella di sollevare in alto il pensiero, l’intelletto, di far andare oltre. Certo, sapevo bene che il Natale degli zampognari non era il mio Natale, il Natale salentino; non era nemmeno quello del luogo dove era nato Gesù. Ma rendeva un’atmosfera del Natale, come il presepe. E tuttavia continuavo a comprendere benissimo che quelle atmosfere non erano né le mie né quelle storiche; non ho mai confuso, nonostante l’età, i diversi piani.
Ciò non è capitato solo a me: credo che càpiti un po’ a tutti i bambini, se ben si medita. E su ciò ha riflettuto un filosofo, considerato piuttosto serioso e non citato dagli studiosi di letteratura per l’infanzia, sebbene abbia contribuito alla presenza nella scuola e nei programmi dei classici della letteratura infantile, Giovanni Gentile. Scriveva infatti il filosofo, in un libro pubblicato per la prima volta negli anni Venti, che il fanciullo si lascia andare nella fantasia, la quale è «attività paga di creare puri fantasmi: cose e situazioni, che non prendono posto nella realtà poiché lo spirito le crea astraendo dal sistema di tutte le cose che attraverso l’esperienza e il pensiero vengono componendo il mondo in cui egli vive ed agisce. Amore perciò del favoloso, del meraviglioso, che potentemente allontana lo spirito dalla massiccia realtà che si dice dell’esperienza, e gli concede libero varco in un mondo in cui lo spirito può spaziare senza urtare in ostacoli di sorta; poiché questo mondo è quello che egli stesso si finge». Così Gentile spiegava molto chiaramente che i bambini sapevano e sanno distinguere molto chiaramente il piano della fantasia da quello della realtà; accade che il fanciullo si concentra in un mondo dove egli può essere signore e sfugge alla realtà concreta ai cui doveri egli deve obbedire.
La poesia agevola, e non solo i fanciulli, al volo dell’immaginazione che, se ben guidata e se appunto non confonde i piani, sviluppa l’intelletto e indirizza verso gli obiettivi della propria vita, verso gli obiettivi che si vogliono raggiungere nella propria vita.
Così, nella scuola le poesie segnavano il tempo, divenivano caratterizzanti una stagione, uno stato d’animo, una percezione.
Davanti a Palazzo Leopardi mi sono, tempo fa, girato indietro e ho inutilmente cercato, tra i pochi turisti presenti, la donzelletta che veniva dalla campagna, così come mi è capitato, in un giorno piovigginoso di fine ottobre, tra le rovine di Selinunte, di accostare la pallida inglesina con la macchina fotografica alla britanna di cui il Carducci parlava in Dinanzi alla Terme di Caracalla (“nel libro una britanna/ cerca queste minacce di romane mura /al cielo e al tempo”). E le poesie di tempi lontani, anche inconsapevolmente imparate come certi brani danteschi, tornano ancora oggi nell’animo mio e ne fanno parte, paesaggi sempre struggenti dell’animo.
Poeti di ieri e di oggi
Orbene, nel suo testo Rodìa ci offre una carrellata, non priva di ampie considerazioni iniziali, di poeti di ieri e di oggi, dal Carducci in poi, autori di poesie destinate ad essere utilizzate anche nella scuola o scritte appositamente per i ragazzi, come è accaduto ed è particolarmente accaduto in questi ultimi decenni in cui la letteratura per l’infanzia, così suole essere chiamata, ha attratto l’attenzione di molti autori.
Ma di questi autori egli ci offre dei brani, anche ampi, sì che il lettore possa toccare con mano, per così dire, i contemporanei e al tempo stesso fare confronti con quelli di una volta, e constatare come i tempi siano davvero cambiati. In questo senso Rodìa offre materiale per lo studio, oltre che presentare una disamina antologica che non è facile riscontrare in altri testi così ampiamente.
La larghezza delle scelte è opportuna proprio perché vuol essere un panorama. Naturalmente non è né può essere esaustiva, né per gli autori di oggi né per gli autori di ieri, e, come accade, le scelte hanno sempre qualcosa di soggettivo e rivelano la personalità e le attenzioni del soggetto che le opera. All’interno di questa discrezionalità, che ovviamente solleva il problema di ciò che si è scelto e di ciò che si è omesso, sempre nella consapevolezza che tutto non si poteva mettere e che la speranza della completezza bloccherebbe ogni iniziativa, va letto il libro che reputo possa esser d’aiuto ad orientarsi nel presente oltre che a fare una comparazione con diverse stagioni della vita.
Quello che, di là da tutto, mi pare possa dirsi è che le poesie che una volta – ossia ai miei tempi, e mi sembrano così lontani e così vicini – si inserivano nei libri di testo non erano sempre scritte per essere lette da bambini. Erano stati d’animo o altro che il poeta esternava. Gran parte della letteratura odierna, di quella qui presente, è invece consapevole dell’audience infantile o giovanile. Ciò importa un diverso modo di porsi ed anche una possibile diversa “durata” del testo nell’animo del lettore. Ma tutto questo non deve escludere, anzi deve accentuare, nel gioco della fantasia, il valore formativo di tale letteratura.
Mi pare inoltre che una poesia (come una prosa) debba essere bella per sé stessa. Mi vengono alla mente altri versi “scolastici” di D’Annunzio: “O falce di luna calante / che brilli su l’acque deserte, / o falce d’argento, qual mésse di sogni / ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”. Versi che si indirizzavano ad un adolescente, o che possono essere letti da un adulto? Parole auree indubbiamente ed evocatrici, pronte ad essere lette dall’adolescente come dall’adulto come dall’anziano, con suggestioni diverse, secondo l’animo del lettore. Quello che conta, alla fin fine, è l’acquisto che resta nell’animo del lettore, anche perché il poeta, il grande poeta, non si è posto alcun fine precostituito.
Il limite di certa letteratura per l’infanzia sta proprio nel voler essere letteratura per l’infanzia, quindi fruibile e consumabile in uno spazio della vita. Appartiene così a quell’industria culturale che decenni or sono Horkheimer e Adorno aveva liquidato come negazione della libertà e della verità. Per fortuna, nella realtà delle cose, questo non sempre accade. Molti scrittori, da Basile a Perrault ad Andersen credevano di scrivere soprattutto per i bambini. Ma non era proprio così. La profondità e lo stile delle loro narrazioni sono andati ben oltre la stagione della vita a cui sembravano essere indirizzati. Anche oggi, in quella che è stata (e vorrebbe essere ancora) l’età del consumismo avanzato ci possono essere sprazzi e molto di più di autentica poesia che non si logora nel mercato globale.
Una ricostruzione come quella di Rodìa ci aiuta a discernere il grano dal loglio.
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