La famiglia Karnowki di Israel Joshua Singer, Adelphi, 2013

di Claudia Zuccarini 

 

Israel Joshua Singer fu uno scrittore polacco, peraltro fratello di Isaac Bashevis Singer, che si aggiudicò il premio Nobel per la letteratura nel 1978.

Singer si dedicò a lungo al giornalismo in yiddish per varie riviste, anche a distanza. Nato come autore di racconti, si cimentò in seguito con i romanzi, tra i quali ricordiamo La fuga di Benjamin Lerner del 1927. Nel 1934 si trasferì negli Stati Uniti, probabilmente per sfuggire alle persecuzioni razziali precedenti la Seconda guerra mondiale. Deceduto giovane nel 1944, ci ha lasciato le sue memorie postume “La pecora nera” e il romanzo oggetto di questo stralcio.

La famiglia Karnowki presenta una struttura complessa e scritta molto bene. La trama abbraccia parecchi decenni della storia d’Europa e diversi anni di quella statunitense. Magistrale è la delineazione, molto sfaccettata, dei personaggi di questa famiglia ebrea, i cui componenti maschili spiccano per testardaggine. I personaggi femminili di contro appaiono fissi e stereotipati. Verrebbe da pensare che per Singer una donna brillante e colta non possa che finire col vivere sola e triste, anteponendo la carriera alla famiglia. Tra i personaggi gradevoli c’è George senior, ribelle in gioventù e umano in età adulta e il simpatico e informale dottor Landau.

L’essere ebrei viene scandagliato e vissuto in modo molto vario da una generazione all’altra: dall’orgoglio di David si scivola nella “corretta neutralità” di George, sino ad arrivare al rifiuto e al disadattamento di Jegor. Sullo sfondo assistiamo al dettagliato succedersi di eventi vissuti per la gran parte nella Berlino della prima metà del ‘900, una Berlino che sembrava promettere grandi svolte culturali e che invece scivola nel delirio della selezione della razza, nei suoi aspetti più abietti, ottusi e terrificanti. L’epilogo del romanzo ci racconta del tentativo di Jegor di fuggire alle sue radici, rinnegandole e disprezzandole, ma non si può fuggire da ciò che siamo e prima o poi bisogna fare i conti con le illusioni irreali di ciò che vorremmo essere, talvolta in modo salvifico.

 

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