L’enigma dei crochi, di Maria Pia Latorre, Tabula Fati, 2020. di Gianni Antonio Palumbo
L’opera di Maria Pia Latorre si apre all’insegna della riscoperta di un ‘manoscritto’: “Dal fondo di un cassetto richiuso da anni emerge la sagoma scura di un’agenda rilegata”. È la metafora del libro della memoria, che attiva una riflessione, dalla specola dei quarant’anni, sull’esperienza passata. Meditazione che è un ritratto generazionale (“Le canzoni d’autore per noi sono state una bandiera, un modo di vivere e comunicare ideali, passioni, amore, emozionandoci”) e individuale al contempo, suggellato nel segno della figura materna, liricamente evocata e rimpianta. La sezione in prosa che precede le poesie è puntellata da una solida scrittura aforistica che costituisce una cifra delle raccolte di Latorre, in cui raccontarsi in prosa e in versi è un processo di continua osmosi tra generi. A nostro avviso, proprio nell’aforisma è possibile individuare una delle corde più sicure e convincenti della vena dell’autrice pugliese.
L’opera, inserita nella Collana Poeti La Vallisa diretta da Daniele Giancane, è corredata da una bella prefazione di Anna Santoliquido e da un’accurata postfazione di Cosimo Rodia.
Il titolo è altamente suggestivo; ammicca a quel croco montaliano ch’è la parola splendente che il poeta non sentiva più di poter riuscire a esprimere. Tale fiore era infatti “perduto” in mezzo a un “polveroso prato”. Eppure c’è un enigma in quella bellezza che resiste nonostante tutto. Non è affatto un caso che l’opera di Latorre si chiuda proprio sull’icona dei flowers, in un canto di speranza e sorriso, proprio come le Poesie prime si erano dispiegate con in incipit un inno grazioso al nome Florinda, una sorta di senhal che l’io lirico si autoattribuiva (“Vorrei chiamarmi Florinda”) “per essere mare terra sole”. Curioso (sebbene non raro) che l’immagine della stella madre richiami spesso paronomasticamente quella del “sale” (“Florinda di sale / e di gote vermiglie”). E se quest’ultimo è strettamente connesso al mare, altro elemento dominante nella raccolta, non si deve ignorare come esso sia riconnesso anche al dolore. La doglia perché i fiori, onnipresenti nel libro, comunque hanno in sé la sorte del proprio appassimento. Il dolore per le paure, altro vocabolo ricorrente: la fragilità dell’umano spesso infatti ottunde la capacità di volare. Ognuno ha inscritto nel suo percorso un “destino”, il cui mistero è riposto nelle “più profonde oscurità” degli occhi. Occhi anch’essi molto presenti nella raccolta, siano essi echeggianti delle domande di una piccola grande creatura (Domande di bimbo) o siano quelli della stessa autrice che si apre alla luce “di primo mattino”.
L’enigma dei crochi è anche un omaggio alla forza delle donne, che vince ogni fragilità e si erge con dignità statuaria contro le violenze. È da intendersi in tal direzione la prosecuzione del dialogo con la Morra cara a Latorre, ma anche la dedica alla pasionaria Ibarruri o a Marcela Lagarde, tra le prime teorizzatrici del concetto di femminicidio. E poi nell’opera affiorano madri, figlie, la “donna coi fiori”… Quell’umanità forte-fragile che trova le sue icone nel Cristo di Natale (ed è intuizione singolare e pregevole la modulazione del canto della natività nell’insistenza sul concetto della croce), ma anche negli abitanti di Kinshasa. “Ma qualcuno ha a cuore / quel destino?”, si domanda l’io lirico a proposito di questi ultimi.
Chiudiamo su una metafora che ha attratto subito la nostra attenzione: le occorrenze dell’immagine del filo. “Eppure c’è un filo di invisibile coerenza con quella ragazza ribelle. E questo filo si svolge nella trama del sogno”. In Frastuoni, l’atto di accogliere “la sera senza braccia” evoca il pensiero di “minotauri in coro” e “arianne stordite”; ecco che riaffiora quindi il motivo del garbuglio, per effetto del quale “si arranca a rincorrere / il debole filo / d’amore”. Quell’amore che si tesse (“Tessiamo ogni giorno tele d’amore”), ma che alle volte resta aggomitolato “in bozzolo” in fondo al cuore. Non dimentichiamo che la simbolizzazione del filo è da sempre di ancipite significato: esso è via d’uscita dal labirinto nella versione ariannea, ma al contempo, mitologicamente, l’atto della filatura riconduce alle Parche e, ancora una volta, al destino che tutto riduce a “sabbia secca”. Da L’enigma dei crochi, bella raccolta, avvolgente ed evocativa, sembra emergere come Sogno, Amore, Bellezza e Poesia siano le armi che Latorre oppone all’incombere del Tempo della Storia. Se non rendono possibile la sortita dal labirinto, consentono di attraversarlo non in un cieco vagare, ma con gli occhi semichiusi (e pertanto paradossalmente spalancati) dell’artistica rêverie.
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