Bambini di ferro di Tommaso Mancini, Armando editore, 2024
Redazione
Giacomo viene dalla periferia romana, vive da solo con la madre in una casetta popolare assegnatagli dal comune quando lei stava ancora con suo padre. Il primo esempio di uomo che si è ritrovato ad avere era tutto urla e ceffoni. Lui è sempre riuscito a rifugiarsi nel suo piccolo mondo, ma ora è costretto a confrontarsi con gli altri a causa dell’inizio del liceo. Tra ronde notturne in cerca di prostitute da importunare fino ai barboni massacrati di botte nel notturno per tornare a casa. A Roma, c’è un bisogno primitivo di primeggiare, sconfiggere, combattere. Tutto si riduce al gioco del più forte e spesso, anzi sempre, i più fragili vengono messi da parte, esclusi, vengono fatti a pezzi. Perché per dominare, non bisogna solo sottomettere, bisogna anche far paura. E non si può far paura senza fare del male. Queste regole sono chiari già dai primi anni di scuola. È come una partita continua a guardie e ladri, dove chi è guardia non vale niente, e chi è ladro, è il re del mondo. Giacomo non era né guardia né ladro, né vincitore né sconfitto. Aveva capito subito chi comandava nella sua classe, chi erano quelli che tutti consideravano i più rispettabili, anche se il rispetto, loro, non se l’erano guadagnato, l’avevano imposto con la forza. Giacomo dovrà fare una scelta che determinerà anche il resto della sua esistenza: diventare quello che tutti si aspettano da lui, un “uomo”, o accettare di essere diverso dalla realtà che ha intorno.
Incipit: «Il ventilatore acceso ai piedi del letto creava un’aria artificiale che solleticava la pianta dei piedi di Giacomo. L’estate, a Roma, è devastante. Non ti permette di respirare per più di qualche minuto senza, ad un certo punto, farti pensare di stare per morire soffocato. Il sole ti entra in bocca e senti i suoi raggi raggiungere il pancreas per poi allungarsi verso le gambe, che diventano bollenti. Senza ventilatore, una notte d’estate a Roma, rischi di morire. Giacomo era sempre stato un insonne. Il buio lo spaventava, certo, ma non era questo il suo problema. A non fargli chiudere occhio, già dall’età di nove anni, era altro. Non il caldo, non l’oscurità, ma se stesso. La notte era per il ragazzo un monito per il suo cervello, il risveglio delle sue forze nascoste che durante il giorno riusciva in qualche modo a tenere a bada. Era come se, arrivata una certa ora, cominciasse per la prima volta a pensare. Pensare e basta.»
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