Il fiore selvatico del Guilcer di Giorgia Loi, il Ciliegio edizioni, 2020
di Cosimo Rodia
A volte i libri capitano tra le mani per caso e per vie misteriose le vicende narrate ti inseguono con tutta la loro portata di bellezza mitica, pregnante e sfuggente. È il caso de Il fiore selvatico del Guilcer, un romanzo plurifacce in cui si sovrappongono il genere giallo, quello realista, quello sociologico. I punti di forza nella narrazione di Giorgia Loi sono l’azione e la suspence nello sdipanare le vicende, e l’aspetto mitico che ubriaca il lettore, disorientato dal velo di inafferrabilità, da una doppia forza di attrazione e di resistenza. Indubbiamente l’Autrice scrive con la profondità di ciò che le appartiene e intimamente conosce.
Il fiore selvatico del Guilcer narra una storia vera, senza i ritmi della cronaca, perché sarebbe stata fredda ed elencativa; l’Autrice, invece, dà corpo ai sogni, ai sentimenti, ai cuori dei soggetti di una tragedia, con le armi che ha a disposizione: la letterarietà. Giorgia Loi cambia i nomi dei protagonisti e lascia i luoghi del dramma. La storia è ambientata in Sardegna, se lo fosse stata in un’altra regione del nostro Paese, sarebbero cambiati i timbri, i colori, le atmosfere; qui la narrazione si impasta con la cultura popolare (come in Deledda o Fois), in un alveo di passioni primitive, vendette e atavici pregiudizi.
L’Autrice tratteggia i personaggi come “Canne al vento” (l’anarchico Tore con i suoi sogni di riscatto umano, è vinto dal pregiudizio e dal banditismo), e pennella la subregione del Guilcer, questo angolo di paradiso della nostra Sardegna, che conserva tratti di bellezza selvaggia e di contraddizioni, per essere vessato dal paternalismo, dal familismo e dal banditismo.
Un parroco e la sua perpetua decidono nel piccolo paese sardo di Aidomaggiore, di rapire la figlia del ricco podestà del paese, per prendere un riscatto e scappare in America a sposarsi. I due insospettabili rapiscono la ragazzina, ma incapaci di gestirla la uccidono, aprendo un sinistro precedente, verso i minori, fino a quel momento mai toccati dal banditismo isolano.
Nel corso della narrazione, invischiata di poliziesco, e in linea col noir sardo, vengono disseminati indizi, quali orpelli per giungere alla soluzione del dramma della piccola Cosetta. Il lettore quasi partecipa alle ricerche e una volta trovato il corpo della piccina e consegnati alla giustizia i responsabili, condannati ad una pena esemplare, apprende che la perpetua torna a casa dopo anni, nella più totale solitudine, espiando ancora la pena del suo delitto e senza che ciò smuova pietà nel lettore.
I tanti personaggi sciorinati dall’Autrice, nei loro connotati sono lo specchio del mondo in cui sono nati, senza la possibilità di cambiare quel mondo (Quando si appalesa il tradimento della giovane moglie di meri Marras, tutto il paese si schiera contro l’adultera; poi, col suo allontanamento, si ripristina lo status quo). I personaggi, sia quelli principali sia i secondari, si muovono intorno a drammi intimi, a volte incomprensibili, comunque sentiti: infatti, i desideri del prete sono misurati da egli stesso come errori, ma ciò non frena le sue passioni e i suoi desideri. Insomma, la descrizione dei luoghi e della sua civiltà ha una forte connotazione simbolica, perché essi divengono sia metafora di un mondo che riconosce le caste, la subordinazione dei sottostanti, il paternalismo, l’illegalità come modalità per emergere (parlando di Borica, la serva del padrone Marras, si legge: «Solo una cosa il destino non le aveva concesso: un marito da servire, ché di figli ne aveva avuto tanti quanti i padroni che aveva conosciuto»); sia per condannare indirettamente tali contraddizioni.
Da un punto di vista formale, il romanzo è dicotomico; da una parte troviamo il noir ad enigma, con tante metonimie narrative lasciate lungo il racconto; una scrittura veloce, con tratti dialogici efficaci, con pagine essenziali da costituire un esempio di scrittura (Le due facciate in cui si racconta la morte della ragazza sono un gioiellino narrativo, oltre ad essere un gancio sferrato a freddo). Dall’altra parte c’è la descrizione dei luoghi e degli stati d’animo in cui la narrativa alza l’asta del registro linguistico (Un esempio di pennellata paesaggistica: «Parlarono finchè la luna rossa di febbraio non comparve ad incendiare l’oscurità e i fantasmi della notte non popolarono le campagne circostanti»; oppure, dopo il rapimento, il vecchio Marras: «Se ne stava seduto[…] su una sedia antica quanto quel dolore sordo che gli aveva tolto il piacere di vivere e poi bussava alle tempie come per sfondargliele. Con lo sguardo perso oltre i vetri, dava a quella pioggia incessante il senso del suo pianto, attendendo invano una notizia che non arrivava»). Infine, il richiamo al folklore con l’uso di parole, nomi, proverbi e credenze del luogo, esprimono un sentimento di amore profondo per la propria magica e antica terra.
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