L’architetto, la città e il fortino – Una passeggiata a Saint-Nazaire tra filosofia, frutti di mare e cemento armato

 di Alberto Dati

 

Passeggiamo in centro a Saint-Nazaire mentre pioviggina: qui si dice horage, sembra quasi romantico, ma per noi è pioggia. È appena iniziato settembre e ci troviamo nella Loira Atlantica, alla foce della Loira che dopo una corsa di mille chilometri viene a gettarsi proprio qui, nel Golfo di Biscaglia: l’umidità è cosa normale da queste parti, nessuno se ne cura.

Il posto migliore per camminare e godersi l’umido che sale dall’Oceano è senz’altro il Boulevard du Président Wilson, che costeggia la spiaggia per chilometri, partendo da Place du Commando e dirigendosi a sud-est lungo la costa, i promontori e le penisole. La piazza si chiama così perché nel 1942 un cacciatorpediniere inglese imbottito di esplosivi venne lanciato contro la bocca del porto della città: il nome in codice era “Operazione Chariot”. Quella notte di marzo poco prima dell’esplosione qui sbarcarono i soldati del commando britannico che avrebbe dovuto sabotare le navi tedesche. Nella stessa piazza, più di ottant’anni dopo, io bevo una birra leggera dopo pranzo, seduto su una sdraio che guarda il mare sulla piazza del Commando: siamo appena arrivati, c’è il sole, fa fresco e noi siamo felici.

Questo luogo alla sera sembra diventare il centro della vita notturna della città: lo sapevamo, ci eravamo già stati cinque anni fa, e abbiamo deciso di tornare per vivere più profondamente queste strade, questa atmosfera. Un paio di locali offrono musica rumorosa e alcolici ai bianchi francesi, mentre i ragazzi musulmani si raggruppano vicino alle panchine del lungomare, fumano narghilè e ascoltano trap in arabo e in francese. Credo che nessuno di loro stia pensando agli inglesi del commando: mi vengono in mente le parole di Paul Virilio, che proprio su queste spiagge cinquant’anni fa scriveva del conflitto che percepiva tra “l’estate dei bagni a mare e l’estate dei combattimenti”. In questi stessi luoghi si può insomma morire per la patria o sorseggiare una birra, sparare ai nazisti o fumare hashish marocchino da un narghilè fatto in Cina.

Poco più avanti, circondato dall’alta marea, si erge solitario il Monumento del Soldato Americano, che i nazairiennes chiamano affettuosamente Sammy. Fu costruito negli anni ’20 per ricordare lo sbarco americano nel 1917, ma nel 1941 – l’anno prima dell’arrivo del Commando – fu fatto saltare in aria dalle truppe d’occupazione tedesche. Fu ricostruito nel 1989, e oggi mentre lo ammiro noto una famiglia al completo che cammina attenta sul fango lasciato scoperto dalla bassa marea: il padre, in tuta acetata, calze e pantofole fuma una sigaretta, mentre la mamma spinge il carrozzino sulla spiaggia e intanto bada a un altro figlio più grande che le cammina da presso: fanno pêche à pied in cerca di ostriche, che infilano in buste di plastica scambiandosi rapidi monosillabi di approvazione. Oh! Eh! Uh! Guardato dall’alto, trovo il tutto molto francese. A due angoli di distanza un bel panificio sontuosamente battezzato “L’Atelier du Pain” offre i suoi prodotti ai numerosi clienti, disposti educatamente in fila fin dalle scale di accesso al negozio: ordinano tutti invariabilmente due baguette tradition, mentre io per quasi una settimana ho comprato croissant, pain au chocolat, dolci bretoni al burro e caffè caldo che consumavamo al mattino affacciati alle grandi finestre del nostro appartamento in affitto, guardando assonnati gli abbaini neri delle case circostanti e la città che si risvegliava lentamente. Anche questo, poter comprare il caffè in un panificio e sorseggiarlo alla finestra guardando abbaini e bovindi punteggiati di gabbiani, mi piace e mi sembra molto francese.

Il fatto è che non si può scindere Saint-Nazaire dal racconto dell’occupazione nazista: sembra quasi che la città sia qui oggi per ricordare ciò che è stato, più che per raccontarci ciò che è. Arrivando da est verso il centro non si può fare a meno di notare l’enorme mole della Base Sottomarini, un gigantesco complesso della marina tedesca, costruito nel 1941 e ampliato fino alla fine della guerra: poteva ospitare e riparare fino a 14 sommergibili U-Boot contemporaneamente. Trecento metri di lunghezza, 18 di altezza, 40mila metri quadri di estensione: l’edificazione di questa base titanica, che aveva necessitato di 480 mila metri cubi di cemento, cambiò per sempre il tessuto della piccola città portuale.

Questa risultava in tal modo completamente tagliata dal suo porto, gli diveniva anzi quasi estranea, ostile, sospetta: le foto degli anni ’40 mostrano le case a graticcio letteralmente schiacciate dalla mole della Base, un vero corpo estraneo piantato nel cuore della vita urbana: violenza architettonica, occupazione degli spazi, trasformazione del tessuto urbano e sociale. Ancora alla fine dell’Ottocento il borgo era piccolissimo, raccolto intorno al porto e al vecchio quartiere del Petit Maroc, nel quale avevamo dimorato brevemente cinque anni fa: alla fine del XIX secolo sembravano quindi ancora più sproporzionati i moli e i bacini di carenaggio, che all’epoca adempivano a un compito pacifico, e cioè alla costruzione dei transatlantici che solcavano l’oceano. Fino agli anni ’30 del ‘900 chiunque volesse andare in Sudamerica doveva imbarcarsi a Saint-Nazaire con la Compagnie Générale Atlantique. Poi arrivò la guerra, e il governo nazista pensò bene di distruggere parte dei cantieri atlantici, occuparne i bacini e innalzare questa enorme bara di cemento armato: faceva parte del Vallo Atlantico, quel ciclopico – e inutile – sistema difensivo che Hitler aveva ideato assieme a Fritz Todt per difendere la Fortezza Europa dalle invasioni degli Alleati. Questi ultimi, dal 1942 al ’45, bombardarono per cinquanta volte la base e la città, che fu quasi del tutto rasa al suolo dalle bombe inglesi e americane: il Comune, la stazione, la Cattedrale, il teatro, i caffè e le locande, le case liberty sul bel lungomare, le villette vicino alla spiaggia, il Petit Maroc e il parco pubblico, tutto andò in fumo sotto la tempesta di fuoco scatenata dalle bombe. Sono dovuto andare su eBay per trovare delle cartoline e degli acquerelli d’epoca che mi facessero vedere il borgo prima delle bombe, del sangue, delle spiagge minate e dei morti. I piloti dei bombardieri B-17 chiamavano l’abitato “Flak City”, la città della contraerea. Alla fine della guerra, quando gli americani del 66° reggimento fanteria liberarono Saint-Nazaire e le zone limitrofe, le ultime ancora occupate in Francia, dell’abitato non era rimasto più nulla: o meglio, era ironicamente rimasta in piedi solo la Base Sottomarini, la causa di tutta quella distruzione, dei morti, dell’operazione Chariot e dei soldati del commando inglese, dei civili sfollati e dei francesi partigiani, di Sammy fatto saltare in aria dai nazisti e anche dei ragazzi della Wehrmacht e della Kriegsmarine morti sotto le bombe. E la causa di tanta disperazione e di tante tragedie rimane lì ancora oggi, grigia e umida, a solidissimo monito di ciò che qui è successo. Tutto intorno sono ancora visibili le tracce dei tanti bunker e delle opere anticarro, dei grandi spazi lasciati aperti nel cuore del centro urbano dai bombardamenti: le case in stile art-nouveau sono affiancate da anonimi edifici degli anni ’60 e ’70, che oggi rendono Saint-Nazaire quasi priva di un centro vero e proprio, e a questa mancanza di gravitazione bisogna farci l’abitudine, comprenderla, apprezzarla nel suo significato profondo.

Dagli anni ’80, le amministrazioni comunali si sono avvalse dell’aiuto di architetti internazionali per ricostruire l’abitato, riqualificare il waterfront e guardare alla Base Sottomarina non solo come a un testimone muto, ma come a uno spazio da poter abitare e usare, e che potesse diventare il fulcro della nuova vocazione turistica di Saint-Nazaire: era ormai ovvio che proprio questo enorme fortino dovesse essere aperto, reso accessibile e in comunicazione col centro cittadino; trasformato ma non distrutto, come invece si voleva alla fine della guerra. Negli anni ’90 l’architetto Ignasi Solà-Morales riconfigurò la base, abbattendo le facciate cieche e aprendo appunto gli alveoli che ospitavano i sottomarini verso la città, collegando inoltre il tetto del fortino al centro commerciale che sorge nei pressi con una grande scala; il tetto – pensato per resistere alle bombe – è ora liberamente visitabile, ci sono degli orti e delle mostre fotografiche, e dalle torrette dove si sparava ai bombardieri alleati oggi i turisti si fanno selfie e scattano foto contro-sole alla rada e al lontano ponte che scavalca la foce del fiume. La funzione di rifugio tedesco è stata disarticolata: nelle parole dell’architetto spagnolo, “la natura rudimentale e intensa dell’esistente è prolungata da installazioni elementari di altro ordine. La densità diffusa di funzioni leggermente sovrapposte, i limiti non troppo determinati dove prevalgono il vuoto e il livello del suolo, la sensazione di spazio eccessivo e poco definito sono da accettare ed apprezzare, perché costituiscono il carattere del luogo”. Dal 2007 vi sono ospitati anche un museo, un sommergibile visitabile, un caffè, uno studio di registrazione, un centro di informazioni turistiche molto efficiente, vi si tengono visite guidate gratuite: la città si è ridisegnata, si è riappropriata di questo spazio militare liminare, che costituiva proprio il limite oltre il quale non si poteva circolare, il confine tra lo status-quo nazista e la possibile venuta dell’invasore alleato. La base aveva dunque tolto il mare alla città, che oggi reagisce allontanandosi dal porto e cercando una nuova direttiva in Rue de La République, che corre verso nord e porta al nuovo municipio, in una piazza a dire il vero un po’ anonima, e troppo lontana dal mare, dal suo carattere e da ciò che ha reso la città quella che è oggi. È un po’ la schizofrenia di questo luogo: diviso a metà tra il mare e la fuga verso l’interno, il passato e il presente, la memoria e la sua negazione. Ci aggiriamo all’interno della base con una sorta di timore ingiustificato: gli spazi sono effettivamente enormi, quasi disumani; gli alveoli che ospitavano gli U-Boot oggi sono specchi d’acqua bui e pacifici, mentre in alcuni di essi sono ormeggiate barche da diporto o mezzi di soccorso marittimo dai colori vivaci. C’è un gran movimento di persone e mezzi, l’accesso è libero e molti curiosano come noi col naso all’insù. Le installazioni luminose a led ridisegnano lo spazio interno, lo rendono stranamente contemporaneo, e rendono intellegibili le scritte in tedesco sui muri, che ancora resistono al passare del tempo. Achtung! Lebensgefahr!

È ancora Virilio a scrivere che questo reticolo di bunker, casematte, blokhaus, stazioni di tiro e fortini di cemento armato sono uno spazio quasi religioso che il governo nazista ha messo in opera sulla costa Atlantica dell’Europa occupata. Spazio religioso interamente votato all’attesa, composto da edifici muti e protesi con lo sguardo verso l’orizzonte infinito dell’oceano, “in attesa della venuta” di un nemico fin troppo concreto: un vero calendario dell’Avvento germanico. Ma contemporaneamente per l’architetto francese questi monoliti sono anche un monumento funebre al delirio nazista della Festung Europa: non è un caso che Hitler si sia sempre rifiutato di visitare questi luoghi, che per lui simboleggiavano in modo sin troppo evidente la paura di un’invasione che sarebbe inevitabilmente giunta a travolgere il Terzo Reich. Sempre per Virilio, la mole ciclopica di questi edifici difensivi fu la conseguenza immediatamente visibile della potenza delle armi alleate: arma e rifugio erano legati da uno stretto rapporto di causa-effetto. L’inizio della costruzione dell’Atlantikwall coincise insomma con la fine del sogno hitleriano del dominio incontrastato sull’Europa.

Per fortuna siamo nella dolce Francia, e basta allontanarsi di qualche chilometro per raggiungere i piccoli e frequentati borghi marittimi di Pornichet, La Baule-Escoublac, Batz-sur-Mer, e all’interno, protetta dal marais, la bella Guérande famosa per le saline: da queste parti è molto semplice lasciarsi alle spalle i ricordi tristi, confondersi tra i turisti, guardare i menu dei ristoranti e le vetrine dei negozi di souvenir. Siamo pur sempre al confine tra Loira e Bretagna, regione che amiamo, e come per incanto vediamo ricomparire le galette, il sidro, le ostriche, i boulots bolliti, i gamberi rosa e le bandiere bretoni con l’hermine, la birra bianca e la fierezza dell’indipendenza. L’ultima sera, come il primo giorno, piove: noi abbiamo un tavolo prenotato a Le France, un ristorante sulla spiaggia di Saint Marc sur Mer, a una decina di chilometri da Saint-Nazaire. Il piccolo paese rivierasco è deserto, la pioggia scende leggera e fa freddo: gli abitanti sembrano tutti entrati in letargo fino alla prossima bella stagione. Mangiamo crostacei e ostriche, che qui sono economiche e sanno di mare, beviamo dello chardonnay freddo, dividiamo un dessert al cioccolato: nel ristorante siamo pochi, la cameriera ci serve con gentilezza e sottovoce, e ci porta due volte il pane con studiata trascuratezza. Pioviggina ancora quando torniamo verso il nostro appartamento, percorriamo per l’ultima volta il lungomare, scorgiamo Sammy immerso nell’oscurità e nell’alta marea. Il litorale è debolmente illuminato, alcuni ragazzi di passaggio schiamazzano sui monopattini elettrici mentre centinaia di minuscoli gabbiani corrono appresso alle onde sul bagnasciuga: pare che inseguano qualcosa, cercano le onde e poi fuggono via, di continuo. Né loro né i giovani in monopattino sembrano pensare a Place du Commando, alla Base Sottomarini o ai quattromila soldati tedeschi, quasi tutti ventenni, che giacciono insieme sotto i cedri blu del cimitero tedesco di Pornichet, a pochi chilometri da qui. Non pensano neanche a noi, che sfidando il vento e la stanchezza riusciamo a dare un ultimo sguardo a questa baia, a questa quiete, a questo luogo carico di ricordi, per noi e per tanti altri ma per motivi diversi. Cerchiamo di riempirci gli occhi di quella vista, respiriamo più profondamente possibile per assorbire quell’aria di oceano, di vita e di morte, di distruzione e ricostruzione, di sidro e choucroute di mare, e infine di pace: ecco, vorremmo poter rubare questa pace operosamente conquistata per poterla portare con noi in valigia. Ma sappiamo che non è possibile, ed è per questo che silenziosamente, assaporando perfino le ultime gocce di pioggia e il vento che viene dal mare, ci ripromettiamo – senza dircelo –  di tornare ancora a Saint-Nazaire, a guardare la marea che lentamente sale e inghiotte la spiaggia, le ostriche, i ricordi dei francesi e il cemento dei tedeschi.

20 settembre 2024

 

Per approfondire:

Paul VirilioBunker Archeology, Princeton Architectural Press 1994

Luc BraeuerLa base sous-marine de Saint-Nazaire, Braeuer 2011

Renzo Lecardane e Zeila Tesoriere – Bunker culturel: la régénération du patrimoine militaire urbain à Saint-Nazaire, In Situ 2011

Renzo Lecardane – Waterfront e patrimonio militare: la base sottomarina di Saint-Nazaire –  Agathón / Università degli Studi di Palermo, RFCA & RCAPIA PhD Journal, 2011/2, pp. 35-42

Paul Gamelin – Le Mur de l’Atlantique: les blockhaus de l’illusoire, Daniel & CIE 1974

 

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