L’innocenza (tit. originale: Monster)

Regia: Hirokazu Kore’eda

Con: S. Andô, Eita, S. Kurokawa, H. Hiiragi, M. Takahata. Giappone, 2023. Durata: 126’

 

di Italo Spada

 

Lo confesso: per non influenzare più di tanto letture e interpretazioni personali, avevo pensato di recensire questo film del regista giapponese Kore’eda, premiato per la migliore sceneggiatura al 76° Festival di Cannes, con una sola frase. La scelta era caduta sul noto aforisma di Hermann Hesse: «Anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno.»

Lo avevo deciso anche per non scaricare sugli altri il mio frettoloso giudizio quando, ancora prima di vedere il film, ho reputato incomprensibile ed errata la trasposizione del titolo originale (Kaibutsu, ovvero Mostro) in L’innocenza. O si è mostri, o si è innocenti. Come si fa a mettere insieme – mi sono chiesto – due cose così antitetiche? Interrogativo eliminato dalla cronaca di tutti i giorni dove fioccano i casi di innocenti giudicati colpevoli e viceversa. Pertanto, prima di esprimere un giudizio, è buona regola esaminare attentamente i particolari di ciò che accade, l’attendibilità di chi testimonia, le finalità, gli interessi personali, le credenze e quant’altro. Regola che vale non solo per i fatti di cronaca, ma anche per le fiabe, i racconti, i romanzi, i film…

Proviamo, allora, a indossare la toga, a suonare il campanello, a dire “la seduta è aperta” e a dare la parola ad accusatori e accusati.

Si fa avanti la signora Saori, vedova e madre del piccolo Minato. Dopo aver notato le stranezze del figlio e aver prestato fede a quello che le ha confidato, piomba nella presidenza della scuola e denuncia il comportamento violento del giovane professor Hori. Le accuse: avere parlato in classe di reincarnazione, avere provocato negli alunni pericolose e strane convinzioni (come quella di essere un mostro con il cervello di un maiale), avere picchiato un bambino…

Convocazione del consiglio direttivo, imputazione di ingiustificate ed eccessive punizioni corporali all’alunno Minato, umiliante mea culpa dell’incriminato, inchini e scuse della preside Makiko e degli insegnanti alla signora Saori, verdetto di colpevolezza e licenziamento del professor Hori. Fine del processo.

Quello pubblico, non quello individuale che prevede appelli a catena e rimane aperto nelle coscienze dei singoli. Usciamo fuori, allora, da aule, corridoi, presidenza, scuola e diamo la parola all’imputato Hori.

La sua versione è completamente diversa da quella ufficiale. Si è inchinato davanti alla preside e ai colleghi e ha chiesto scusa alla signora Saori, ma non l’ha fatto perché ha riconosciuto i suoi errori e si è pentito. Quello che abbiamo visto e sentito è solo una descrizione soggettiva di una mamma e di suo figlio che non corrisponde a ciò che è realmente accaduto. Incomprensioni ed errate interpretazioni di parole e gesti hanno trasformato il normale comportamento di un docente per mantenere la disciplina in classe in bullismo e violenza gratuita. Hori non ha picchiato Minato, non ha infangato i bambini, non li ha offesi, non ha impartito lezioni di reincarnazioni. Ha accettato di caricarsi la croce solo per non danneggiare il buon nome dell’istituto, pur sapendo che anche la preside, nonostante si presenti più di una volta come umile addetta alle pulizie, ha qualche rimorso di coscienza. Il colpevole va cercato altrove; magari, come accade nei gialli classici, tra soggetti insospettati. Ora che non è più vincolato dal regolamento scolastico, è bene chiarire tutto anche con la mamma del bambino. È così che, da accusatrice e accusato, Saori e Hori diventano investigatori complici e scoprono non solo che Minato ha un amichetto effeminato che si chiama Yori ed è vittima delle violenze di suo padre, ma anche che, oltre l’amicizia particolare notata dai compagni e oggetto di velenosi commenti, i due condividono un inconfessabile segreto.

«Il mostro – si chiede il regista con riferimento al titolo originale – è qualcosa che si nasconde dietro di me o qualcosa fuori di me? I due bambini, a causa di pregiudizi sociali e di offese crudeli, finiscono per vedere dentro di sé un mostro (il cervello del maiale) e desiderano reincarnarsi, creando uno spazio insieme realistico e immaginario in cui proteggersi ed essere felici (…) ma forse il mostro è dall’altra parte del mondo che dà loro la caccia, o è in ciascuno dei personaggi che sono mostri per qualcun altro, comportandosi in modo spaventoso, equivoco o incomprensibile.»

Rifiutati dagli altri, Minato e Yori si sono creati, in un vagone abbandonato in un binario morto, uno spazio realistico e immaginario. È da quel posto che Saori e Hori cercheranno di recuperarli per riportarli alla normalità prima che un’improvvisa tempesta faccia crollare tutto.

Ci riescono?

Da quanto ci è dato sapere, Kore’eda e lo sceneggiatore Sakamoto hanno cambiato il finale e nella versione definitiva hanno deciso di non far capire se il dramma diventa tragedia e se Minato e Yori verranno salvati, moriranno o rinasceranno.

Scelta comprensibilmente non gradita dagli spettatori. Perché trascinarci in una storia e abbandonarci proprio quando arriva la conclusione? Non è la prima volta che Kore’eda – sfruttando in modo magistrale lo specifico filmico del montaggio – cerca di coinvolgerci in vicende che invitano a giudicare gli imputati per impartirci le lezioni di Pirandello e Kurosawa in Così è (se vi pare) e in Rashōmon: la verità e ciò che crediamo ed è inutile scervellarsi quando ci troviamo di fronte a versioni e testimonianze diametralmente opposti e contrastanti. Lo aveva fatto nel 2022 con Broker. Le buone stelle, lo rifà ora con questo L’innocenza che chiama in causa famiglia, scuola e  istituzioni. Onestà ci impone, tuttavia, di riconoscere che questa volta il regista giapponese ci aveva avvertiti ancora prima di entrare in sala; è colpa nostra se non lo abbiamo capito.  Dove? Quando? Come?

Si guardi con attenzione la locandina originale. I cinque personaggi che ci stanno fissando (in alto, gli infangati Minato e Yori; in basso, mamma Saori, il professor Hori e la  preside Makiko) sembrano rivolgerci una domanda: 怪物 (ovvero: Mostro) e  だーれだ (ovvero: Chi?).

Nessun rimprovero per la nostra ignoranza della lingua giapponese. Dopo la traduzione di quei ghirigori e la visione del film, però, ci sia permesso fare un indagine statistica: chi crede di avere individuato in questo film mostri e innocenti, alzi la mano.

Per quanto mi riguarda, ancora una volta intendo fare tesoro dell’aforisma di Hermann Hesse e non condannare l’orologio fermo.

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