Se mi conosci di Vincenzo Mastropirro, Fara Edizioni, 2024
di Barbara Gortan
La nuova opera poetica “Se mi conosci” di Vincenzo Mastropirro, scritta in doppia lingua, italiano e dialetto di Ruvo di Puglia, ci permette di continuare a sentire il legame con le radici della nostra cultura millenaria, una storia antichissima che arricchisce e che studiamo e preserviamo, un bene culturale immenso.
Al centro di questa pubblicazione ci sono la morte della madre, il lutto, il dolore. Le sue parole offrono un modo di vedere l’infinito, l’ignoto, l’assenza e tutte le suggestioni che fanno parte del mistero ultimo della vita.
Questa raccolta si è classificata seconda ex aequo al concorso Faraexcelsior 2024 ricevendo il seguente giudizio da Doris Bellomusto:
“Si apprezza l’originalità dello stile e del contenuto, la vivacità espressiva ottenuta attraverso la sapiente mescolanza delle lingue madri, italiano e dialetto. La silloge è strutturata con delicata attenzione in modo da consentire a chi legge di ricostruire il senso profondo di un viscerale legame con la madre e con la morte”.
Mastropirro manifesta, attraverso l’uso di un linguaggio estremamente espressivo caratterizzato da una modulazione attenta di parole pregne di significati ancestrali, la sua carica emotiva. Incontriamo, pur nello schema libero, una espansione linguistica eccezionale, arricchita da similitudini, metafore, perifrasi, eufemismi, iperboli e allitterazioni. Non mancano tratti di ironia graffiante a beneficio di una loquela mista che spazia dal dialetto alla lingua parlata e dalla lingua parlata al dialetto. L’uso del dialetto è la punta di diamante dell’autore, un bene da custodire e salvaguardare e come dice Pirandello: “Il siciliano e il piemontese insieme a parlare non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti fiorettando qua e là questa che vuol essere la lingua italiana, parlata in Italia”.
Anche Mastropirro ha colto dunque l’importanza e lo spessore del dialetto nell’uso di parole di armoniosa sonorità che dimostrano ampiamente la sua formazione e la sua propensione a rendere con suoni poetici la musicalità che profonde nella sua passione primaria di flautista e compositore.
Parlare a qualcuno in una lingua che comprende consente di raggiungere il suo cervello. Parlargli nella sua lingua madre significa raggiungere il suo cuore, dice Nelson Mandela.
La lingua di Mastropirro è la lingua materna in cui è nato e ha imparato a orientarsi nel mondo. Essa innerva la sua vita psicologica, i suoi ricordi, associazioni, schemi mentali. La lingua delle emozioni, il suo bene più prezioso. Essa apre le vie al consentire, ci permette di entrare nel suo profondo e istintivo humus e nello stesso tempo irrazionale e acritico, quasi insorgesse dalle viscere e fosse connaturato con la sua costituzione biologica individuale. Con una narrazione atemporale, scorrono sentimenti diversi rivolti al ricordo della madre, non tenta di assomigliarle e forse non ci riuscirebbe, ma nello stesso tempo la ammira, la sua forza è in quel bene, in quel legame indissolubile tra figlio e madre. Riusciamo ad immaginare questa donna, bellissima l’esaltazione gradevole a tratti forte e decisa; ogni manifestazione esteriore di lei suscita una sensazione di soavità, di grazia, di una condizione spirituale felice e desiderabile: l’essenza della bontà, dell’innocenza, della santità, il suo essere autentica descritti nella sola espressione: “Mamme, nan s-è mè puste u profìume.Mamme, ère u profìume.
Mamma,/ non si è mai messa il profumo.// Mamma, era il profumo.”
Era il profumo. È un fiore che riempie di profumo l’esistenza.
La scrittura avanza ed eccede, fruga nei ricordi e nelle ferite, le allarga.
Il dolore per la perdita di una persona cara è così talmente intenso da rendere difficile anche respirare: superare una situazione così forte, a volte quasi opprimente e soffocante, risulta fondamentale per il nostro benessere e per la nostra stessa esistenza. Comprendere cosa stiamo realmente provando mentre una sofferenza tanto intensa si è fatta strada dentro di noi si rivela di particolare rilevanza, così come capire che non siamo soli e che altre persone, altri esseri viventi, anche una pianta stanno affrontando la loro perdita proprio in questo stesso momento.
U CHJANDE DE LA CHJANDE
La chjande, s’è chjecote la vole vedaje, la vè acchjànne.
La chjande, nan la vaite, stè a fo la pazze se la stè a pegghjo affuorte.
La chjande, la vole vasò vole sendèje l’uteme respèire.
La chjande, chjange sènza larme nan vole alzò cchjù la cope.
La chjande, u è sapiute
ed è fadegote ‘nzime. Assè.
Avaste, basta
mo, u chjande de re ddo chjande
è specciote pe’ siémbe.
(in memoria di mia madre e la sua pianta)
IL PIANTO DELLA PIANTA
La pianta, si è piegata/ la vuol vedere, la va cercando./ La pianta, non la vede, sta impazzendo/ la sta prendendo male./ La pianta, vuole baciarla/ vuole sentire l’ultimo respiro./ La pianta, piange senza lacrime/ non vuole alzare più la testa./ La pianta, lo ha saputo/ e ha agonizzato insieme. Assai.// Basta, basta/ ora, il pianto delle due piante/ è finito per sempre.
Analizzando il dolore e le reazioni che si possono vivere, l’autore si appresta a scoprire i principali ostacoli da superare per proseguire con serenità la propria vita.Eppure, in quegli scambi c’è un embrione di empatia e di condivisione. Certamente più utile, più benefico, meno distruttivo di un dolore chiuso, muto, solitario.
È ovviamente decisivo il fattore tempo: solo la durata, il trascorrere di un tempo adeguato, possono aiutarci a ritrovare un equilibrio.
Occorre fare i conti con il fatto che la persona che non c’è più, continua – in forme diverse, non fisiche – a stare con noi e dobbiamo essere capaci di ricreare una relazione di memoria e di affetti. Era già successo per sua nonna: Il poeta la racconta e ne ferma il ricordo.
Ho sovrapposto
Il volto di mia madre a quello di sua madre.
Ère la nùonne che mi portava a spasso
nei viottoli delle mie vene in giro per il corpo
lungo strade tortuose, piene di sangue
ancora bollente in questi vecchi anni.
Èrene fìémene con volti scavati nella gioventù,
rese immortali per i loro capelli al vento.
Èrene mamme e figghje e sguardi sublimi
e lingue di fuoco e mani gentili. Erano
mia madre e mia nonna. E ora piangi. Versa
le tue lacrime viola, sui loro volti candidi.
Una delle ultime poesie di chiusura della raccolta, intitolata “Il borsone” il poeta racconta la vita nonostante la morte, la vita che circola nel corpo a guisa di dolore, ma c’è un viaggio da continuare, anche se nulla è più come prima.
U borsone
U borsone pe’ viaggiò
nan se fosce assalìute pe’ scèje au more nan sìémbe pe’ scèje a Rome o a Napue, se fosce pìure pe’ sto nu picche assìule.
U pigiame è lu stìésse,
re metànde pìure, cume re maglìtte e le spredùzze. Stè u dèndifricie
e la scekìume pe’ la varve.
La vuorse è sèmbe chère ma
u viagge nan vè tanda cchjù ddà.
Stè nu litte biànghe, na cartellèine appàise e u corridùoje lunghe pe’ scèje nanze e rète.
Il borsone
Il borsone da viaggio/ non si prepara solo per andare al mare,/ non sempre per andare a Roma o a Napoli,/ si prepara anche per stare un po’ soli.// Il pigiama è lo stesso,/ le mutande pure, come le magliette/ e le ciabatte. C’è il dentifricio, schiuma da barba e rasoio.// La borsa è sempre quella ma/ il viaggio, non va tanto più in là./ Un letto bianco, una cartellina appesa/ e le lunghe corsie per andare avanti e indietro.
Quando muore un amore e lo perdiamo, nulla sarà più come prima. Tutto sarà chiuso in quel luogo da cui è difficile uscire; in quel momento in cui il mondo si è perso e si è spento, in un letto bianco, una cartellina appesa, tutto sarà sempre in quelle lunghe corsie per andare avanti e indietro.
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