Se mi conosci… di Vincenzo Mastropirro, Fara editore, 2024

di Maria Pia Latorre

 

Se mi conosci… è un volume che, attraverso l’esperienza sconvolgente della perdita, s’interroga sull’essenzialità del vivere, al netto di tutto ciò che può accadere all’essere umano.

Se Vincenzo è poeta sin nel midollo (anche attraverso la lunga ed originale esperienza musicale), e se la parola-lingua che usa come mezzo espressivo gli deriva dalla madre, allora questa silloge è una resa dei conti, un punto d’arrivo, una sorta di stratificazione di vissuti e contenuti impressi nei testi, in fermo-immagini che attraversano due vite, le raccontano, le agitano,  le rimescolano. Due vite nate insieme, per volontà di natura, una dentro l’altra “primo e ultimo lampo luce”, la sua e quella di sua madre.

Lo dicono chiaramente, ma con una strana calma i primi versi:  “Se vorrai, posso essere tuo figlio sempre”. E proprio qui, nascosto e al riparo dagli occhi e dal turbinio degli eventi, il grido: portami con te, fammi venire da te, mamma. Parole non scritte che non hanno un’età anagrafica, ma che sono sacra conca del tempo vissuto assieme, il lampo luce dell’inizio e dell’alfa, lo stesso dei due sguardi che si sono incrociati per tutta la vita, ed è lo stesso della fine e dell’omega.

Vivere una perdita è un’esperienza dolorosissima, anche se le perdite degli affetti sono parte integrante della vita umana (“la morte fa così, ti corre al fianco”) e rientrano in quelle costanti esistenziali alle quali nessuno può sottrarsi. Per certi versi parlarne (e ancor di più scriverne) è molto più difficile di viverlo il distacco. Esso ci attraversa come un folle turbinio, un senso di sconquassamento che non riusciamo a realizzare e a razionalizzare. Arriva, ci sconvolge, ci trasporta in un roboante vortice, un budello nel quale roteiamo senza contezza di noi e della realtà che ci gira intorno, un trauma insanabile che dobbiamo andare a cercarne i fili per riuscire a riacquistare la consapevolezza di noi stessi.

No, non tutti sono predisposti e chiamati a scrivere del dolore, Vincenzo sì.

Spesso la letteratura, grazie alla capacità di chi riesce a trattare di argomenti   delicati come lo è la rielaborazione di un lutto, ci aiuta ad accettare il senso della sofferenza che il distacco e l’assenza della persona amata provocano in noi. Lo spezzarsi irreparabile del filo, Cloto che porge il collo ad Atropo, trattenuta da  Lachesi, come potremmo immaginare in una ideale iconografia postmoderna, dove la morte (stimmatizzata) non è accettata perché essa è stata estromessa dal ciclo della vita e perché oggi c’è sentore di morte ovunque e questa sgradevole sensazione mette paura. Per molti oggi vivere è  stare all’ombra della morte: “se la morte è assenza di vita / è la vita assenza di morte?” (cfr. “Il lungo silenzio”, di M. P. Latorre, piattaforma YouTube).

Una delle prime “reazioni” leggendo la silloge è l’empatia e l’immediata connessione che si crea con le parole del poeta. Le poesie ci coinvolgono in prima persona nello stato emotivo per ciò che di definitivo sta accadendo e gli sta accadendo.  Una forza che ci fa vivere nel tessuto delle parole, “c’è un lato bello nelle parole / una parte nascosta che sorprende / una rarità che appartiene all’uomo / solo e nudo nella terra aspra e pura”.

Nei vuoti si creano le immagini: la cotognata stesa ad asciugare al sole, il letto, non quello della vecchiaia, ma quello del concepimento, l’antica porta di casa con i battenti, oggetti che diventano correlativo oggettivo e rappresentazione del profondo dolore, come la pianta che “s’è chjecòte, si è piegata”.

La vis drammatica è resa con potenza dal verso spezzato, dai vuoti lasciati dai suoni assenti, che rimandano al vuoto spaziale lasciato dalla madre, che viene più volte sottolineato anche fuori del focolare domestico.

Versi struggenti, passionali, tanto da essere assimilati senza soluzione di continuità alla Passione di Cristo: “Mà, te so’ viste sotte la crausce, / mamma, ti ho visto sotto la croce”, poesie inanellate come perle di onice o grani di un rosario  scappati via da un filo spezzato e sparpagliati nei pensieri. Poesie che rimangono attaccate addosso, come impronte sul cuore; ma, siamone certi, non si riuscirà a spiegarne l’effetto d’insieme. Questo resta e resterà mistero, come è il mistero della morte e della vita che si rigenera.

Poesia dai toni intimistici, dunque, ma a un tempo apertamente dichiarati; versi che sono il conio di uno stile cristallino, trasparente e vero, che sa utilizzare numerosi e variegati registri.

Parola che è confine della verità e si sa fare verità essa stessa, testimonianza di  vita, di vera vita: “È un gioco / per il resto, andasse come andasse, perché, / o con le preghiere o senza preghiere, / la sofferenza è assai e chi patisce davvero, / non vuole l’aiuto di nessuno, vuole solo morire”. Versi che rimandano all’immensa poesia di Primo Levi che ha saputo scavare il dolore e dare nome al male, il Levi di  “Se questo è un uomo”.

Ma “Se mi conosci…” ha la forza di superare il buio e accende lumi di speranza verso il futuro, “sei così bella. Sei mia figlia […] mia figlia che partorirà / l’eternità, madre di un bacio / che terrò con me per sempre”.

Nell’universo poetico di Mastropirro convivono in armonico equilibrio più culture  per cui val qui la pena di riportare alcune motivazioni del premio Faraexcelsior: “Si apprezza l’originalità dello stile e del contenuto, la vivacità espressiva ottenuta attraverso la sapiente mescolanza delle lingue madri, italiano e dialetto” (Doris Bellomusto).

La poesia del nostro è a tratti silenziosa, suona felpata come passi di gatto, perché il bisbiglio è senza dubbio più forte e penetrante dell’urlo, e questo l’autore lo sa bene e lo pratica ancor meglio, ma nell’intima intelaiatura forte dell’urlo della  sofferenza.

Grande sapienza e matematica definizione nella costruzione di ogni poesia, come ho già scritto di Vincenzo Mastropirro in precedenza, dove ogni parola ha un proprio peso specifico, niente è intentato, tutto è costruito ad arte, a volte in forma di sillogismo, pur nell’immediatezza poetica.

Una poesia solida, scolpita, in ogni fonema, in nitide immagini. Poesie costruite come partiture musicali, con il metronomo acceso e l’orecchio assoluto del musicista. La perfezione e l’incanto della parola pronunciata, a loro volta, si fanno esperienza di bellezza.

Mastropirro vive emozioni e sentimenti a trecentosessanta gradi, dallo spasimo alla rabbia (che non diviene mai collera); egli vive la poesia come un viaggio per   avvicinarsi all’essenza delle cose, all’essenza dell’arte. Ma il viaggio di ricerca è sempre un rischio, tuttavia è una via che egli percorre fino in fondo, anche a costo di trascinare piedi stanchi e feriti dalla fatica dell’avanzare, anche a costo di graffiarsi le mani per scavare alla ricerca della verità.

Vi lascio a una poesia di straordinaria intensità e musicalità.

 

La pèzze a chelaure

Mamme
ove acchjòte sìémbe
la pèzze a chelaure
e me la cusaje ‘ngudde
pe famme cumbarèje.

 

Mamme, sapaje
ca ère la pèzza giuste
o ca èrene mazzote
o ca èrene carìézze
u sapaje peccè ère mamme.

 

Mamme, u sapaje
e u sope pure mo
quanne me tremìénde

sènza disce nudde, citte-citte
cu re d’uocchjere ind-u senole.

 

La pezza a colore
Mamma/ ha trovato sempre/ la pezza a colore/ e me la cuciva addosso/ per farmi fare bella figura.// Mamma, sapeva/ che era la pèzza giusta/ sia con le mazzate/ sia con le carezze/ lo sapeva perché era mamma.// Mamma, lo sapeva/ e lo sa anche ora
quando mi guarda/ senza dire niente, zitta/ con gli occhi nel grembiule.

 

 

(Già pubblicato su Circolare Poesia,  Numero V, Settembre 2023)

 

 

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