Il Giufà salentino

di Cosimo Rodia[1]

 

Giufà è un personaggio presente nei racconti della tradizione orale, dal carattere semplice, sciocco, maldestro, che si trova in situazioni a volte soccombente, altre volte vincente. Si ritiene essere un personaggio di origine arabo-siciliano o, per estensione, mediterranea perché presente nei racconti orali della Spagna, Turchia, Marocco, Grecia, della zona balcanica. Un soggetto che, pur in maniera preterintenzionale, si beffa delle autorità e sconvolge l’ordine costituito.

Dai miei cinque volumi di racconti popolari tratti dall’oralità[2], estrapolo nove racconti con un personaggio salentino, simile al Giufà mediterraneo per gli atteggiamenti paradossali, per i caratteri irrazionali, per il comportamento contrario al senso comune e, molto spesso, propenso a ficcarsi nei guai, anche se a volte diventa vincente, grazie alla sua semplicità.

Il primo racconto è “Lo scemo nato”[3],  il cui protagonista è un uomo senza malizia e senza intraprendenza: è, infatti, la madre a combinargli il matrimonio; quando la sposa aspetta il marito a letto, egli disattende, senza volerlo, agli obblighi matrimoniali; solo dopo l’intervento del padre, che parla chiaramente su cosa debba fare, il giovane gli lascia un messaggio inequivocabile: «Dì alla mamma che io parto per il paradiso».

“Malapensa”[4] è un altro Giufà sotto mentite spoglie. Una mamma partorisce il suo dodicesimo figlio e non sa come chiamarlo; il piccolo, nel crescere, compie birichinate, tanto che la donna lo chiama: Malapensa. Quando, questi diventa giovane, decide di lavorare, solo che tutti lo conoscono per la sua leggerezza. Un massaro lo assume, convinto che avrebbe ‘aggiustato’ il fannullone, così gli offre il lavoro e come compenso un uovo e pane in quantità. Malapensa, prendendo alla lettera il massaro, mangia l’uovo e tutto il pane di una settimana; allora, il massaro rescinde subito il contratto e lo manda via, ordinando di tirarsi dietro la porta; e il ragazzo, ancora una volta, prendendo tutto alla lettera, veramente la schioda dai cardini e la porta via con sé.

Il tema simile del sempliciotto che mangia il pane in grande quantità, lo troviamo anche nel racconto siciliano: “Giufà e il prete”[5], solo che anziché un padrone sornione (e modestamente velleitario), nel racconto siciliano troviamo un prete che assume il sempliciotto come sagrestano.

Un altro Giufà è riscontrabile ne “La bicicletta e l’asino”[6]. Un padre e un figlio, molto leggeri, scambiano il loro asino per una bicicletta, quando gliela rubano, rimangono con un mucchio di mosche in mano.

Ancora, “Il maschio porta i pantaloni, quando la donna vuole”[7] narra la storia di un uomo semplice e felicemente sposato. L’uomo parte per il mercato, dopo l’invito della moglie a prendere la mucca più pingue per venderla; lungo la strada, il buon uomo si fa convincere a scambiare la sua bestia con un cavallo; il cavallo lo scambia, poi, con un maiale; ancora, il maiale con una capra; questa con un’oca, poi con un gallo, infine, l’uomo vende il gallo per pochi soldi, consumati per mangiare. Quando racconta l’accaduto ad un amico, questi lo dileggia e con ironia aggiunge che la moglie l’avrebbe presto randellato. La risposta del marito è laconica: «Ti sbagli, lei approva tutte le mie scelte». L’amico, certo della sua tesi, scommette cento monete d’oro, così lo segue e veramente si accorge che non solo la moglie non fa pesare l’accaduto al marito, ma l’accoglie con gioia; così lo scommettitore, basito, consegna il denaro al vincitore e la moglie di questi rimane sempre più convinta di riporre bene la fiducia nel suo uomo.

Nel racconto “Luigi e Nonno Orco”[8], Luigi è un sempliciotto che pascola con tanto scrupolo le pecore del padrone; ha la prescrizione di tenersi lontano dal bosco di Nonno Orco. Un giorno, durante un’estate infuocata, Luigi ottiene dal padrone un pezzo di cacioricotta stagionata, quindi porta il gregge al pascolo proprio nel fresco del bosco che gli era strato interdetto. Quando Nonno Orco lo scopre, minaccia il ragazzo, ma questi lo intima a non avvicinarsi, per evitare di fare la fine della pietra che sbriciola tra le mani (in realtà sminuzza la cacioricotta). Nonno Orco rimane impressionato e tenta vanamente, a più riprese, di dare una lezione al giovane invadente; quando Nonno Orco muove, Luigi s’impossessa anche della sua proprietà, riscattandosi socialmente.

“La fortuna ti viene a trovare”[9] è la storia di una famiglia povera e numerosa, col figlio più piccolo alla ‘buona’; questi un giorno decide di andare a vendere i fichi del campo di famiglia; i genitori glieli concedono, senza nessuna pretesa; il ragazzo lungo la strada è gabbato da una gazza ladra e dopo ripetute e inutili richieste di essere saldato, il ragazzo sega l’albero dove si trova il nido della gazza, nel quale rinviene cinque uova d’oro zecchino, con i cui la sua famiglia compra una piccola masseria e «la fame finì di perseguitarli».

“Il sindaco dei folli”[10] narra di un tal Bisicchio, che a tutti i costi vuole diventare ricco come il suo massaro, così gli chiede come abbia fatto ad avere un gregge tanto numeroso. Questi, per deriderlo, gli dice di aver portato in mare il suo gregge, che a contatto con l’acqua si è moltiplicato; così fà anche Bisicchio che, di contro, vede annegare tutte le sue pecore. Poi, vuole una moglie bella come quella del massaro e anche qui combina pasticci; fino a quando non chiede, sempre al massaro, come fare ad avere tanti vasetti di miele; l’uomo, alzando la posta, gli dice di portare il letame al Sindaco che l’avrebbe scambiato proprio con i vasetti di miele. Quando sulla casa comunale lo scambio non si realizza, Bisicchio svuota il contenuto del suo recipiente in testa al  primo cittadino; un compaesano, che del sindaco non era amico, palesa la sua soddisfazione, sussurrando: “Bisicchio Sindaco!”, che presto diventa un coro, tanto che a furor di popolo Bisicchio diventa veramente Sindaco.

Nel racconto “Giufà”[11], un ragazzo prende tutto alla lettera, così, quando sente il padre che sarebbe stato contento di vedere morti il gallo e il prete per le loro grida, Giufà uccide prima il gallo, poi il prete; e quando porta il corpo del religioso davanti a casa, il padre disperato lo butta nel pozzo e lo copre con la pelle di montone. Giufà, con la sua leggerezza, diffonde la notizia di aver ucciso il prete, sicchè in delegazione gli uomini di chiesa vanno a verificare quanto sia vero; quando si calano nel buio pesto del pozzo, toccano il pelo della pecora, le corna e le zampe, così capiscono di essere stati gabbati proprio dal più stupido del paese.

Le stesse azioni del Giufà salentino, si trovano nel racconto siciliano “Giufà e il canta-mattino”[12], solo che in quello siciliano a morire è “canta-mattino” e a calarsi nel pozzo è lo stesso protagonista; nel racconto salentino, invece, il ragazzo uccide prima il gallo e, poi, il prete; e a calarsi nel pozzo è un volontario che interloquisce col sagrestano, che alla fine dà ordine di andar via.

“Martino alla buona”[13] narra di due fratelli, uno dei quali alla ‘buona’, che dopo aver ricevuto l’ordine di tirarsi dietro la porta, veramente la schioda dai cardini, se la carica in spalla e raggiunge il fratello in cammino; il fratello intelligente si stringe la testa tra le mani, ma continuano per la via, fino a quando salgono su un albero per riposare; sotto la pianta si fermano dei ladri per dividersi un bottino, i quali scappano atterriti, dopo che ricevano la porta in testa scivolata dalle mani di Martino; alla fine i due fratelli si impossessano di un sacco di monete d’oro, con cui diventano ricchi.

Motivo simile si trova nel racconto siciliano: “Giufà e la Berretta Rossa”[14], in cui Giufà si divide con un mercante un mucchietto di monete, bottino dei ladri, gabbati dal sempliciotto nelle vesti di un finto morto. In entrambi i racconti, comunque, avviene il cambio di status sociale, grazie al tesoro acquisito accidentalmente.

Infine, vi è una coincidenza tra la storia turca “Nasreddin Hoca, il figlio e l’asino”[15] e il racconto salentino “Ascolta tutti ma…”[16]; apologhi, nei cui racconti un uomo, un figlio e un asino sperimentano le diverse possibilità di procedere per la via (padre e figlio a piedi con l’asino al fianco; padre sull’asino e figlio a piedi; figlio sull’asino e padre a piedi; padre e figlio sull’asino) con passanti sempre sentenziosi; la conclusione del racconto turco è ironica, mentre in quello salentino è più laconica, con la morale implicita di seguire il proprio pensiero, senza condizionamenti.

Guardando alle tipologie dei racconti, si potrebbero discriminare almeno tre tipi di Giufà: quello vincente; quello che strappa un sorriso per le sue uscite; quello perdente. In entrambe le tipologie, Giufà è sempre colui il quale agisce in modo irrazionale, come nessuno se lo aspetta; situazioni impreviste che originano ilarità.

Ora, Giufà è un soggetto divergente nella risoluzione dei problemi, ha un suo modo personale di stare nel mondo, così la sua comicità, scaturita dal suo modus vivendi, potrebbe essere riconducibile più ad una tipologia umana, anziché legata ad una geografia territoriale specifica.

La figura dello sciocco che scatena risate, infatti, è presente in Plauto, Boccaccio, Basile, Pitrè, come nella fiabistica popolare russa o quella tedesca.

Vale la pena ricordare, delle 103 fiabe di Aleksandr Afanas’ev, “Emelja lo sciocco” o “Senza paura”; oppure, dei fratelli Grimm: “Il ragazzo che se ne andò di casa in cerca della paura”, simile al racconto del ricercatore russo. La storia dei fratelli tedeschi narra di un figlio minore ritardato, che non riesce a sentire la paura; diventando grande, il padre lo invita a trovarsi un lavoro; lo impiega un sagrestano che tenta di impaurirlo, in verità il ragazzo lo fa precipitare dal campanile; poi, il giovane giunge in un castello e partecipa ad un bando: chi avesse trascorso tre notti nel castello, avrebbe sposato la principessa; il ragazzo ritardato supera la prova, perché non riescono a spaventarlo: gatti neri, cani, nuvola di fuliggine, morti, teschi…, e sposa la principessa; prova per la prima volta paura, invece, quando la sposa gli versa una secchiata d’acqua con pesciolini, mentre dorme.

E lo sciocco si trova in diversi racconti delle “Fiabe italiane” di Italo Calvino, come in “Giovannin senza paura” o “Lo sciocco senza paura”.

Inoltre, “Lo sciocco” è un altro racconto inserito nelle “Fiabe popolari veneziane”, un’edizione bilingue di Daniela Zamburlin, che narra la storia di un ragazzo tonto, la cui madre gli dà il compito di vigilare una gallina che cova le uova; quando la chioccia lascia la cova, il ragazzo la rondella e la uccide, così cova egli stesso le uova, schiacciandole; poi, cucina la gallina, rubata a sua volta da un gatto; nel tentativo di inseguire il felino, lo sciocco capovolge il recipiente del vino; insomma un personaggio cui non gli va bene una.

La presenza dello zuccone, infine, torna spesso nelle fiabe aneddotiche di diverse latitudini, quasi tutte poggiate su una trovata o su atteggiamenti surreali.

I caratteri del personaggio Giufà sono quelli di muoversi secondo logiche dell’assurdo (Chi mai avrebbe covato le uova dopo aver ammazzato la gallina) e la stimolazione del riso potrebbe essere un modo di alleggerire una vita di ambasce, specialmente in una società statica, rigidamente divisa tra privilegiati e svantaggiati.

Ma l’atteggiamento di Giufà potrebbe indicare anche un diverso modo di stare nel mondo, al di là dell’efficientismo voluto dalla logica e dalle regole sociali imposte; sarebbe a dire, un’altra modalità di affrontare la vita, sia che Giufà assuma atteggiamenti assurdi, sia che usi l’ironia o un pizzico d’inganno per risolvere situazioni problematiche.

Quelle di Giufà, generalmente, sono birbonate ‘bianche’, nel senso che non provocano veri danni e ogni gesto viene assunto senza metterci tanto ‘sentimento’, e alla fine il riso scatta per gli atteggiamenti insoliti, per l’inaspettato, per la grossolanità, per le situazioni comiche e grottesche. Sicchè, sembra che Giufà coi suoi modi improbabili, rappresenti più una caratteristica umana, quella della estemporaneità e dello sproloquio (senza il cui atteggiamento forse non ci sarebbe stato neanche il progresso umano; è noto come la risata rilasci neurotrasmettitori e ormoni come adrenalina e cortisolo). Ogni gesto esagerato e inconsueto potrebbe essere evidentemente un modo sia di generare il riso, sia un modo parallelo di vedere le cose rispetto all’ordine costituito. Il riso, infatti, potrebbe essere un modo di prendere contezza di ciò che ci circonda e di avere un metro anche per misurarlo, grazie al mondo rovesciato dello sciocco.

Cosa sarebbe stato dell’umanità senza un pensiero non convenzionale, senza coloro che pensano soluzioni originali? A volte, la discontinuità rispetto ad una condizione data, si realizza d’emblée, senza un percorso galileiano; quando meno te lo aspetti, ecco compiere casualmente uno scatto in avanti (così sono avvenute le scoperte della gravità, della radioattività, del piano cartesiano). E l’atteggiamento alogico è una componente umana che giustifica il Giufà ‘diverso’, portatore di novità, proprio nel suo essere sui generis.

A fortiori, Nietzsche ha discettato sulla decadenza della cultura occidentale ottocentesca, per avere incasellato la realtà secondo parametri razionali; il mondo inizia il suo declino quando si afferma la presunzione umana di comprendere la realtà col solo pensiero; per il filosofo tedesco, nell’impostazione razionalista rimane fuori tutta la dimensione dionisiaca, ovvero la bellezza come energia scomposta e incontrollabile. È un evidente atto di accusa, allora, contro il razionalismo e, di converso, un’apertura di credito al suo contrario.

Un altro aspetto che viene da sottolineare, è come il personaggio Giufà, di qualsiasi latitudine, faccia parte di una società accogliente, in cui la diversità non è motivo di esclusioni o di emarginazione; così l’alterità di Giufà non genera estromissione. Il ‘diverso’, nei racconti popolari tratti dall’oralità, non è percepito come una minaccia, come un estraneo che crea disordine nell’ordine costituito, ma un soggetto con cui interloquire regolarmente; e la sua azione, nel tessuto sociale, potrebbe essere un modo indiretto e straniato, personale e unico di giudicare il mondo dei ‘normali’, mostrandone eventuali contraddizioni e controsensi.

Se così fosse, allora la figura di Giufà non può essere legata a ragioni territoriali, ma ad una peculiarità umana. Chi ha di fronte le gesta di Giufà, potrebbe avere, pur nell’ilarità dei paradossi, una visione alternativa agli stereotipi, arricchendosi di altre possibilità, che normalmente non perseguirebbe.

Infine, dal punto di vista sociologico, si può riscontrare il carattere comunitario del mondo in cui si muove Giufà. Un mondo preindustriale, agricolo, statico che ha avuto caratteri simili in tutte le latitudini. Un mondo piccolo, dalle distanze abbreviate, con una logica in cui si condivideva tutto, gioie e dolori, feste e lavoro, con le famiglie allargate e l’interazione continua col vicinato, quindi con istituzioni solidali e compatte, in cui si realizzavano forme di cooperazione, con la certezza di poter contare sull’aiuto dell’altro; sicchè, il diverso non poteva che essere parte integrante della società, soggetto attivo ed interagente, legato, dunque, ad una dimensione umana e collettiva.

Giufà dei racconti popolari, allora, è un personaggio da ascrivere nei tipi umani di una società chiusa, quella società scalzata, poi, dalla Modernità, sopraggiunta con la rivoluzione industriale.

 

 

[1] Studioso di Letteratura Giovanile, redattore di “Pagine Giovani” e direttore di “Interzona news”.

[2] Il mondo che non c’è – Fiabe, racconti popolari e altre storie della tradizione orale, Mandese editore, Ta, 1998; Fiaba dell’alto Salento, Edizioni pugliesi, Martina Franca, 2008; Fiaba e leggende di terra d’Otranto, Progedit, Bari, 2014; Non ci posso credere! Racconti e misteri dell’Altrove, Progedit, Bari, 2016; Ti racconto il Sud – Fatti, fiabe e leggende della tradizione orale, Adda editore, Bari, 2018.

[3] In Il mondo che non c’è…, cit., pp. 126-128.

[4] Ivi, pp. 101-103.

[5] Francesca Maria Corrao, a cura di, Le storie di Giufà, Sellerio, Palermo, 2001, pp. 54-55.

[6] Cosimo Rodia, Il mondo che non c’è…, cit., pp. 111-112.

[7] Cosimo Rodia, Fiabe dell’alto Salento, cit., pp. 45-48.

[8] Ivi, pp. 67-70.

[9] Ivi, pp. 120-124.

[10] Cosimo Rodia, Fiabe e leggende di terra d’Otranto, cit., pp. 10-15.

[11] Ivi, pp. 60-64.

[12] Francesca Maria Corrao, a cura di, Le storie di Giufà, cit., pp. 26-27.

[13] Cosimo Rodia, Fiabe e leggende di terra d’Otranto, cit., pp. 181-183.

[14] Francesca Maria Corrao, a cura di, Le storie di Giufà, cit., pp. 33- 36.

[15] Ivi, p. 107.

[16] Cosimo Rodia, Fiabe dell’alto Salento, cit., pp. 132-133.

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