Attraversamenti di Bartolomeo Bellanova, Puntoacapo editore, 2024

di Maria Pia Latorre

 

Sono un fitto e avvincente diario poetico gli Attraversamenti di Bartolomeo Bellanova, con la vita che ci cola dentro e che sembra essere rubricata en plein air e in volata.

Con un’accurata postfazione di Franca Alaimo, Attraversamenti è la sesta raccolta poetica dello scrittore bolognese che, anche questa volta, ci consegna un testo di grande intensità.

Usa la penna come un affilatissimo bisturi, Bellanova, a scarnificare con potente realismo ogni angolo di vita, ogni zona d’ombra che attraversa il teleobiettivo della sua lucida analisi e che egli riesce ad imprimere in testi di grande vigore espressivo.

Un libro certamente concepito non per offrirci momenti di poesia rilassante, ma, viceversa, per sconvolgerci, per inquietarci, per interrogarci, per metterci in crisi.

Tutti i testi sono continue sollecitazioni a stare con i più deboli, a guardare la realtà dalla parte degli ultimi e degli offesi, come è precisa costante di tutta la coerente produzione di Bartolomeo.

Ma in quest’ultima raccolta il poeta va oltre se stesso, e non per rassegnazione, bensì per un profondo e accorato sentimento di pietà che abbraccia l’umanità.

Suddiviso in due sezioni, la prima, Visioni periferiche, è un taccuino di viaggio in cui, con grande maestria, sono fotografate le periferie geografiche ed esistenziali che il poeta ha voluto incontrare o ha incontrato per caso sul suo cammino.  Visioni periferiche continua in  due sottosezioni De natura e A-mors che entrano nella quotidianità della vita del poeta restituendoci sempre inedite e suggestive immagini. La seconda sezione intitolata Lo scandaglio scende giù giù, nelle profondità più recondite e spesso sconosciute a noi stessi della nostra psiche, a scandagliare ciò che viviamo come realtà e come apparenza, come  male e come bene e giungendo ad una meta-indagine sulle possibilità umane di analisi.

Molte le poesie che restano attaccate addosso, tutte sorprendono perché hanno personalità e originalità, capacità di coinvolgere e di farsi apprezzare per l’invenzione della parola, il cui linguaggio si mescola continuamente al mondo dello scibile come alle altre forme artistiche; uno straordinario melting-pot di filosofia e religione, economia e arte, al servizio della parola poetica.

Importanti le citazioni, a partire dalle Upanishad e dal culto brahmanico, con il supremo insegnamento delle religioni millenarie orientali fino alle dense pagine del cristianesimo, sondando ambiti della filosofia, da Schopenhauer a Morin a Eliot.

A tal proposito vorrei qui ricordare la significativa postfazione di Franca Alaimo che, descrivendo il percorso letterario di Bellanova, cita l’importante saggio di  Eliot, Il bosco sacro, in cui il poeta americano scrive intorno all’importanza “delle relazioni di ogni composizione poetica con le poesie diverse di altri autori”, proponendo “la concezione della poesia come di una vivente unità di tutte le poesie che sono state scritte”. Bellanova agisce in questo alveo, arricchendosi di tutte le suggestioni culturali, di vita reale e affettiva che egli rielabora in un linguaggio “mobile” e “sfaccettato”.

Un’altra importante costante di questa come delle altre precedenti raccolte è la presenza del corpo, nella sua totale fisicità fatta di carne e sangue, muscoli e ossa. Un corpo (in tanti corpi) che  compare da subito, sin dai primi versi, in modo forte, “Scuci l’imbastitura dei tessuti epiteliali/ lo vedi che siamo corpi illimitati/ praterie di acqua e di fiati./ Il sangue si annoia a morte a correre/ sempre nello stesso circuito.” Questa ulteriore costante la ritroveremo nella maggior parte delle liriche come corpo analizzato, mostrato, martoriato, sublimato, e poi mosso in atteggiamenti, in azioni o in immagini fermate al fotofinish, tanto da farne un sistema complesso che entra prepotentemente nella complessità artistica.

La poesia sorprendentemente multiforme di Bellanova, fatta di parola asciugata ed essenziale, ha una forte carica d’ironia che affiora imprevedibilmente creando testi iconici che contengono folgoranti verità; ne cito alcuni,  Galaxy, Pierrot, Chiaravalle, Il vecchio, Battuta di caccia, ma sono tante, davvero tante le poesie memorabili in Attraversamenti.

Ve n’è una bellissima, Madre, che si discosta dalle altre non tanto per stile di scrittura, quanto per il  portato di sostanzialità, ed è quella dedicata alla nascita di un bimbo. Un bimbo importante. È direttamente collegata ad un altra poesia, molto struggente, contenente viceversa una non-nascita.

Madre ha in essa tutto l’amore e la tragica visione dell’umanità, tutta la forza e la meraviglia della vita embrionale, poesia che sembra punto di svolta dell’intera raccolta perché apre alla speranza, nonostante ne siano davvero pochi i segnali in questo tempo martoriato.

È incastonata nel cuore del volume e brilla così:

 

Madre

L’hai visto bene all’ecografo il profilo

del tuo fagiolo d’amore

che succhia dai tuoi villi

t’assorbe e ti esplora?

L’hai visto galleggiare nel tuo acquario,

rimbalzare sulle pareti del suo mondo – ventretuo?

L’hai vista la fontanella del cranio, lo zampillo del verbo?

Portalo in riva al mare dove l’onda sfinita

gli racconterà che è stato girino, nibbio,

cacciatore di bisonti nella grotta di Lascaux:

Santa Chiara, il marchese De Sade, il Terzo Stato

tutto è già narrato in quei centimetri di carne.

Addormentalo sulle foglie fradicie dei nostri pianti

galopperà con un sonaglio in mano sull’unicorno

più bianco delle tue mammelle di latte.

Fa che dorma e sogni

sogni e dorma per venticinquemila anni

[uno sputo nella sputacchiera dell’eternità]

per gioire del decadimento radioattivo del plutonio-239

per raccontare ai suoi figli che in un tempo lontano

tra otto miliardi di ostaggi di bande di assassini

ci fu qualcuno che nascondeva semi sotto la neve.

 

 

 

 

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