Ginevra o Mosca di Pierre Drieu La Rochelle
di Sandro MaranoGinevra o Mosca è un saggio storico-politico pubblicato da Pierre Drieu La Rochelle nel 1928. La sua stesura era stata preceduta da altri due saggi Misura della Francia (1922) e Il giovane europeo (1927) in cui Drieu aveva già abbozzato la sua idea di Europa confederata.
È noto che Drieu, prima di aderire nel 1934 al fascismo, rispetto al quale mantenne sempre la sua libertà di pensiero e di critica, attraversò una fase di oscillazioni, di incertezze e di approfondimenti ideologici, che possono riscontrarsi anche in questo testo.
Composto in gran parte da articoli scritti in precedenza per alcune riviste e poi rielaborati, dove l’analisi politica e sociale si sposa, com’è tipico dell’autore, a considerazioni ed esperienze di carattere personale, il saggio si segnala anche per il suo linguaggio che, soprattutto nella prima parte, ha uno straordinario valore letterario e poetico.
Nella prima parte, intitolata La fine delle patrie, Drieu sostiene l’esaurirsi della funzione delle patrie legate al nazionalismo nella consapevolezza che una guerra, fatta peraltro con le moderne tecnologie, avrebbe comportato l’autodistruzione dell’Europa.
Drieu considera una iattura la guerra moderna e si schiera contro il bellicismo tout court: «il vecchio spirito bellico sogna di elevarsi sulla macchina, ma la macchina è più forte del guerriero: è lei a piegarlo, è lei a spezzare nel guerriero l’ideale».
Lo scrittore francese vede la salvezza delle varie identità europee in uno spazio più vasto, l’Europa appunto, tendenzialmente pacifica e fondata sull’autarchia economica. Le piccole patrie europee possono continuare a svolgere una funzione e ad avere la loro dignità solo nella più grande patria europea:
«Europei, non siete stanchi di piegarvi davanti all’orgoglio americano, all’orgoglio russo, all’orgoglio indiano, all’orgoglio cinese? Ci sono popoli grandi come dei continenti, come delle razze (…). E noi europei, ammassati nella nostra piccola penisola, quando ci troviamo individualmente davanti ad un rappresentante di questi popoli giganteschi, non solo per il numero e l’immensità dell’impero, ma per l’omogeneità della loro civiltà, non possiamo riferirci se non ad un campicello ingombro di una ventina di staccionate-frontiere, ad una popolazione mediocre (…). Se il Cinese vi parla di un sentimento della vita e della morte che vale per quattrocento milioni d’esseri umani [dato riferito al 1928, ndr], gli risponderete con le distinzioni fra il Cristo scozzese e il Cristo catalano? (…) tra Calais e Nizza io soffoco; vorrei allungarmi fino agli Urali. Il mio cuore nutrito di Goethe e di Dostoevskij, aggira le dogane, tradisce le bandiere, sbaglia il francobollo nelle lettere d’amore».
Dopo aver distinto le patrie spirituali che non conoscono tramonto da quelle che si susseguono nel tempo che prima o poi finiscono, Drieu accomuna in una stessa critica, non disgiunta da ironia, marxismo e nazionalismo: «I marxisti vi spiegano che la tragedia di Racine è dipesa dallo stato della proprietà nella Francia del XVII sec. I nazionalisti vi offrono una spiegazione affine, sottolineando la circostanza che nell’Ile-de-France crescono i pioppi, non abeti o ulivi. Per gli uni e gli altri il catasto e l’erbario possono raccontarvi tutto di Fedra».
Peraltro alcune sue osservazioni sono vere e proprie anticipazioni profetiche. Innanzitutto lo scrittore punta il dito contro il livellamento dei bisogni, dei costumi e delle coscienze che avrebbe di lì a qualche decennio trovato la sua massima espressione nell’odierna globalizzazione: «per il capitalismo, che mira ad estendere la sua clientela fino al limite della popolazione, la clientela è il suffragio universale (…) tutti devono comprare e possedere gli stessi beni, la stessa auto, lo stesso abito, lo stesso appartamento, lo stesso libro». Ed ancora: «La mobilità diventa il principio stesso di tutta la vita dell’uomo».
In secondo luogo Drieu rileva la minaccia alle identità dei popoli rappresentata da una immigrazione massiccia e incontrollata: «dalle navi e dai treni si vedono sbarcare gli Asiatici, gli Africani, gli Slavi (…). Il viaggiatore francese si arresta sul bordo d’una strada e chiede informazioni a un bambino che è nato in quei luoghi ma non parla francese. Agli angoli delle strade si vedono figure che non si vedevano dal tempo delle grandi invasioni, si sentono odori che erano stati dimenticati (…). Ciò che minaccia la Francia minaccia anche gli altri popoli nelle loro case e nelle loro abitudini».
Nella seconda parte del saggio, intitolata Il capitalismo, il comunismo e lo spirito, prevale, a differenza della prima parte, un periodare involuto e complesso, quasi a dimostrazione del travaglio del pensare. Drieu analizza l’inadeguatezza delle risposte date dal capitalismo e dal comunismo alla decadenza che ormai pervade l’intero mondo moderno, mettendo in luce il fatto che entrambi condividono una visione materialistica della vita e dell’uomo. La sua analisi per certi versi ricorda quella non dissimile di Evola in “Rivolta contro il mondo moderno”. Capitalismo e comunismo sono «i figli ardenti e cupi dell’industria», «sono gli agenti inseparabili della rovina delle civiltà conosciute». Se «L’ideale dei nostri giorni è la produzione (…). Il comunismo e il capitalismo contemporaneo si ritrovano nel medesimo ideale».
Di fronte all’eterna domanda: che fare?, lo scrittore francese sembra oscillare tra un atteggiamento di lucida disperazione e di rassegnata accettazione del capitalismo trionfante e un atteggiamento di rivolta e di fiduciosa attesa nell’avvenire: «Tutto è finito. Tutto? Tutto un mondo, tutte le vecchie civiltà: quelle d’Europa e allo stesso tempo quelle d’Asia. Tutto il passato, che è stato magnifico, va in fumo, anima e corpo (…). Non c’è più Dio, né aristocrazia, né borghesia, né proprietà, né patria, né proletariato. A destra e a sinistra: ciascuno lo sa nel suo cuore. Ci sono solo uomini che si sforzano di creare qualcos’altro per non morire». Da un lato egli sembra ritenere che nulla possa arrestare il capitalismo nella sua corsa fino ai suoi esiti più problematici e distruttivi. Dall’altro lancia con un pizzico di ingenuità un appello ai capitalisti d’Europa perché limitino la concorrenza nazionale e sociale al fine di costituire un nuovo blocco continentale, auspicando quella sorta di socialismo autarchico che di lì a poco avrebbe intravisto nel Fascismo.
Nella prefazione Drieu aveva confessato il suo pessimismo affermando di credere alladecadenza dell’Occidente e dell’intero pianeta. Nondimenodichiarava che non intendeva alzare bandiera bianca né rifugiarsi nella torre eburnea dell’intellettuale e invitava comunque all’azione politica con questi versi:
«È giunto il tempo della disperazione o dello stoicismo.Tuttavia la vita è bella fino all’ultimo giorno.Io mi sento ancora pieno di curiosità e d’imprevisto.Nell’attesa, voglio fare l’Europa».
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