“A Ciambra”Per la serie “brutti, sporchi e cattivi”
Regia: Jonas Carpignano
Con: Pio Amato, tutta la famiglia Amato, Koudous Seihon; Italia, Francia, Germania, 2017. Durata: 117’
di Italo Spada
Nei pressi di Gioia Tauro, in una località denominata “a Ciambra “, staziona una delle tante piccole comunità Rom sparse nella Calabria. È qui che si è recato Jonas Carpignano, trentatreenne regista italo-statunitense, che può vantare al suo attivo solo un cortometraggio (A Chjàna) e un film sugli immigrati clandestini girato nel 2015 (Mediterranea). Il suo intento, probabilmente, era quello di proseguire l’indagine sulla vita di chi si considera “solo contro il mondo” e vive ai margini della legalità. Lo ha fatto tenendo presenti le lezioni di maestri del cinema: dai registi italiani del neorealismo ai fratelli Dardenne, da Robert Bresson a Lars von Trier.
Al centro della vicenda ha collocato un ragazzino di 14 anni che vive la delicata fase di crescita e si ritrova a fare l’uomo di casa quando il padre e il fratello maggiore finiscono in carcere. Incollandogli addosso la cinepresa, Carpignano lo ha pedinato nei suoi furtarelli, nella sua incosciente sfida alla malavita, nella ricerca di amicizia e affetto, nel suo sogno di “sussurrare ai cavalli”, nella sua definitiva scelta di seguire le orme dei grandi. Ne è venuto fuori un film originale e coraggioso che, pur premiato alla “Quinzaine des Réalisateurs” di Cannes 2017, si è attirato un bel po’ di critiche, soprattutto dopo il verdetto della commissione di esperti che lo ha designato per rappresentare l’Italia nella corsa all’Oscar come miglior film straniero. Valga per tutti un commento apparso in quella piazza virtuale che è il web: “La solita scelta buonista. Se quello sui clandestini – Fuocammare , che ha rappresentato l’Italia l’anno scorso – faceva vomitare, questo come minimo procura la dissenteria.”
E’ così? Il cinema italiano è veramente caduto così in basso?
Riprendiamo un discorso fatto più volte. La validità o meno di un film sta negli occhi e nella testa di chi guarda. Precisando che per “testa” si intende l’intreccio di idee, cultura, credenze, formazione, adesioni politiche e convinzioni radicati in ognuno di noi. E attese, ovviamente. Che si vuole dal cinema? Distensione, risate, evasione? Restate a casa: A Ciambra non è per voi. Se volete, invece, riflettere su qualcosa che esiste a prescindere dalle vostre convinzioni, allora andate a vederlo. Ci sono film che disorientano e sconvolgono e A Ciambra è uno di questi. In altri momenti storici non sarebbe mai apparso sugli schermi. Se la censura fascista bloccò sul nascere L’amante di Gramigna che Visconti voleva realizzare da una novella di Verga e se Umberto D di De Sica venne apertamente criticato da Andreotti perche offriva “un’immagine negativa dell’Italia nel mondo”, a maggior ragione questo film di Carpignano sarebbe stato messo tra “i panni sporchi che vanno lavati in casa.” Il fatto è che questi panni sporchi (e quando si parla di rom l’aggettivo “sporco” è quello più ricorrente) esistono e bisogna prenderne atto. In A Ciambra non ci sono solo zingari; con loro convivono, fanno affari, si spalleggiano, si incontrano e si scontrano anche brutti negri immigrati e cattivi boss della ‘ndrangheta locale. E così, riecco la feccia dell’umanità sintetizzata nel titolo del film girato da Ettore Scola nel 1976.
Forse, se non ci fosse stato l’appoggio di Martin Scorsese questo film non avrebbe mai visto la luce. La sua avventura agli Oscar, se i santi Cosimo e Damiano (che a detta del regista hanno già dato) non fanno un secondo improbabile miracolo, si concluderà presto, perché “A Ciambra” non è un prodotto commerciale che può piacere agli americani e perché deve fare i conti con film di altro spessore, come “Happy End” di Haneke, “120 Battements par Minute” di Campillo e “Foxtrot” di Maoz. Se si vuol vedere qualcosa di nuovo, però, si ritaglino 117 minuti del proprio tempo, e ci si sforzi di fare più di quanto non fa Carpignano: entrare senza preconcetti nell’animo di Pio Amato e della sua famiglia. A tratti si avrà l’impressione che dietro la macchina da presa ci siano operatori inesperti, perché l’immagine balla e dà fastidio agli occhi. Si trattenga il giudizio negativo, perché si sta vedendo un film che si ispira al movimento “Dogma 95” tendente a “purificare” il cinema dagli effetti speciali e a suggerire, tramite l’utilizzo della “camera a mano”, la rispettosa ingerenza nella vita degli altri. Sotto l’aspetto contenutistico, però e ancor prima di gridare Al rogo! Al rogo!, si prenda atto della denuncia socio-antropologica che, ancora una volta, un genere di cinema impegnato porta avanti e “si parva licet componere magnis” si pensi all’Italia del 1961, quando un altro regista costrinse i benpensanti ad aprire gli occhi e a riflettere sulla vita del sottoproletariato romano. A chi ha la memoria corta ricordiamo titolo e nome: Accattone di Pier Paolo Pasolini.
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