L’acqua fresca di Pierre Drieu la Rochelle

di Sandro Marano

 

«Se Catherine non esprimesse brutalmente il suo desiderio a Jerôme, non potrebbe cogliere la contraddizione tra la vitalità espressa nel suo desiderio e la mediocrità della situazione, convenzionale e superata, in cui si trova, ovvero il matrimonio di convenienza, basato sul suo falso preconcetto del denaro».

Così scrive Pierre Drieu la Rochelle nella breve prefazione al testo teatrale L’acqua fresca pubblicato nel giugno 1931, rispondendo alle varie critiche che gli erano state mosse dopo la sua messa in scena. L’opera, che fu rappresentata alla Comédie des Champs-Èlysées con attori che godevano d’una certa notorietà negli anni Trenta, contò quarantotto repliche e fu quella più rappresentata dello scrittore francese. L’acqua fresca ha per tema il matrimonio per convenienza, un tema che rispecchia un problema che assillò nel corso della sua vita lo stesso Drieu.

La trama: Catherine, la protagonista, è spinta dalla disastrosa situazione debitoria della famiglia nonché dalla paura di dover rinunciare alle comodità e al tenore di vita borghese che conduceva, a sposare un uomo maturo e benestante che non ama, rinunciando all’amore del giovane Jerôme. Assicuratasi così l’agiatezza si propone come amante alla vecchia fiamma, che però la respinge sdegnato. Alla fine però il sentimento reciproco dei due giovani prevale su ogni calcolo meschino. Catherine annuncia che divorzierà, rinunciando questa volta all’agiatezza per unirsi a Jerôme, vivendo d’amore e d’acqua fresca. È quest’ultima una tipica espressione francese, che ricorre nelle battute finali dell’opera, per indicare, con un pizzico di ironia, il vivere con poco e niente nutrendosi d’amore:

«Jerôme: Forse abbiamo scacciato il fantasma del denaro e dell’orgoglio. Ha il sapore dell’acqua fresca.

 Catherine: Sì, insomma, l’amore e l’acqua fresca».

Due sono le critiche che furono mosse a quest’opera: la prolissità e la crudezza dei dialoghi e una certa immobilità scenica. Quanto alla prima critica Drieu ammise di buon grado di aver scritto un’opera lunga: «devo confessare che era mia intenzione che fosse così. O, per essere più preciso, non volevo che i personaggi parlassero in modo eccessivo, ma che, comunque, esprimessero in modo molto preciso e completo ciò che provavano…  Desideravo che i personaggi assomigliassero ai nostri contemporanei, poiché per me è essenziale raccontare il mio tempo così com’è, non idealizzandolo».

Quanto all’assenza di movimento scenico Drieu cercò di ovviare con indicazioni poste tra parentesi per conferire dinamismo alle scene, ma i risultati non sono del tutto soddisfacenti.

La produzione teatrale di Drieu è piuttosto limitata e secondaria rispetto alla sua opera saggistica e narrativa. La critica più autorevole ha tuttavia posto in rilievo come Drieu abbia sempre avuto un vivo interesse per il teatro: «Drieu infatti amò il teatro con trasporto ed intensità e più ancora lo amò di fronte alle parziali riuscite e ai netti fallimenti, sempre lucidamente riconosciuti. Si trattò dunque di vera passione, all’inverso di quanto l’esiguo numero di opere scritte, compresi gli abbozzi ed i semplici progetti, lasci supporre» (Moreno Marchi, in Céline Drieu la Rochelle Tra schermo e palcoscenico).

Dopo L’acqua fresca furono messe in scena altre due sue opere:  Le chef (Il capo) nel 1934 e Charlotte Corday nel 1942. Entrambe furono concepite con intenti politici: la prima verte sul contrasto tra l’uomo d’azione e l’uomo del sogno e sugli inevitabili compromessi che accompagna l’azione, mentre nella seconda si legge in filigrana quell’ideale dell’unità europea sempre accarezzato da Drieu.

Con L’acqua fresca, che al di là dei canoni teatrali si legge volentieri come un testo di narrativa, Drieu si proponeva di portare avanti il grande tema della vita decadente della borghesia con i suoi riti e la sua propensione a interpretare ogni cosa in termini economici. Questo tema, che lo scrittore aveva già affrontato in romanzi come L’uomo coperto di donne (1925), Blèche (1928), Fuoco fatuo (1931) troverà espressione anche in alcuni romanzi successivi: Che strano viaggio (1933), Borghesia sognatrice (1937) e in qualche modo nel suo capolavoro Gilles (1939).

 

 

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