Lo specchio della mente di Dante Maffia, Crocetti editore (Mi), 1998.

di Cosimo Rodia

 

Lo specchio della mente è un libro in versi, dal metro lungo e senza preoccupazioni metriche, ma dal potente linguaggio evocativo.

Una silloge con trentaquattro personaggi di tre luoghi diversi del Sud Italia (Aversa, Bisceglie, Girifalco, ovvero sedi di noti manicomi) e il filo rosso che collega i vari protagonisti è la follia; personaggi che sarebbero stati tutti internati se non ci fosse stata la legge 180/’78.

Tante immagini, tanti racconti, tante vite, tanti sogni disturbati dalla pazzia: “La mia (la mente) è piena di ghirigori/si muove/in trepidazione che si accumulano/nelle giunture.

Un altro: Poi nel buio ho scoperto/che i morti tornano insidiando/silenziosi le mie costole/giocandosi a dadi il mio corpo.

O ancora: Nasceva da me/da un punto imprecisato del mio corpo/una musica che mi pareva estranea/e sconosciuta ma poi diventava/un ricordo, la memoria di un viaggio.

In tanta schizofrenia c’è però unità. L’unità risiede nella possibilità di riscontrare il destino complessivo dell’uomo, il flusso dell’esistenza nei suoi vari aspetti; quasi Maffia voglia presentare, con le tante esperienze, un campionario della commedia umana. Ogni personaggio è un frammento di vita, un’esperienza esemplare, una prova della varietà e complessità del vivere. Figure vere, insomma.

Il poeta scende in ogni attore e con raffinata attitudine cerca di scoprire le ragioni, le tendenze, gli istinti della mente centrifugata, nonché il corso delle esperienze deviate.

Scrive Nelo Risi, nell’ottima prefazione, che ci troviamo di fronte a storie di miserie; aggiungo che sono storie tragiche, probabilmente di tanti Icaro, soffocati dalla natura, dal destino, dal divenire: M’è rimasto un desiderio/che batte batte smania vuole/prima o poi… Andare sul marciapiede/di fronte alla sua casa/mettermi a ballare e tutti ad affacciarsi/finestre balconi aperti gli operai che smettono di lavorare.

Oppure: Perché mi trovo qui?/ Per il mio desiderio/che non ho mai attuato.

Sono destini di solitudine, di disperazione, di frustrazioni.

Attraverso un linguaggio intensissimo, Dante Maffia dà corpo ai sogni dei pazzi, importanti per la risonanza che acquistano nella visione del poeta e nell’immaginazione di chi legge. Il linguaggio per questa ragione è altamente allusivo; le sensazioni sono assaporate nei misteriosi valori esistenziali.

Qual è il deficit maggiore riscontrabile nei protagonisti proposti da Dante Maffia? L’incapacità di alzare il velo della realtà e cercare il quid capace di connotare la vita in questo spazio irrazionale e confuso.

Perché, poi, tante storie di uomini persi dietro i filamenti e i ghirigori dell’immaginazione? Forse per presentare allegoricamente la vita come prigione, come agone entro cui le vite son soggiogate (o soffocate) dalla storia, dal destino (o dai destini): Il mondo/ignora me e te,/siamo fuscelli, che gliene importa/a ginestre palazzi fiumicello/e ascensori e viali della nostra/carne infetta di questo fluire che/avanza inedito anonimo e straripa/in noi senza che possiamo/difenderci da nulla?

Una combinazione di vite su un sostrato magmatico fatto di un continuo interscambio tra scena e proscenio.

A uno sguardo da lontano, il mix origina una linea importante che è esistenziale ed impegnata. In entrambi i casi, una visione in cui l’uomo è estraneo al grande movimento dell’esistenza. Certezza che crea insicurezza e de-potenzia il progetto-vita. Ecco, allora, gli incubi, i sogni aberranti, le immaginazioni lugubri.

A questo punto il poeta è testimone, ma anche giudice di una società e di una vita bizzarra e contraddittoria. Per Risi storie di emarginati e di miserie umane; ma anche voci di ‘altri’ schiacciati dalla vita, dalla forza incommensurabile e titanica, contro cui ogni volontà individuale s’infrange: Tesa a perfezionare il mondo, a distrarlo/dal suo garbuglio dalle maledizioni/dalle troppe contaminazioni, restavo ore e ore/alla finestra a progettare/gli incontri.

La scrittura è variegata; a momenti di dolce rammemoramento, si alternano immagini surreali; a una narrazione distesa, si alternano punte aguzze d’immagini spinose e taglienti. Due aspetti contrari, facce di una stessa medaglia, che come cerchi in uno stagno, si allargano e com-prendono tutte le ansie dell’uomo.

Tante storie di folli, dunque, attraverso cui il poeta ci lascia l’amaro in bocca e ci fa meditare. La follia. E se fosse una strategia di difesa dell’uomo dal dolore e dal male? Una malattia-escamotage per non sprofondare nel nulla?

A noi il compito di vivere e scoprirlo.

Carosino, 6 dicembre 2000

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