“L’inattesa letizia del giardino” di Sandro Marano: Una dimensione da salvaguardare e riscoprire.
di Vito Davoli
Evidente e affascinante è la musa che genera e alimenta le liriche del volume di Sandro Marano: L’inattesa letizia del giardino, per i tipi di Tabula fati (2021). Che sia Eden o Parnaso, che sia l’Amazzonia o il cortile di casa poco importa. Ciò che conta è il giardino, anzi il verde: uno spazio con una sua identità, un suo colore (Non è facile fare verde, sostiene perentorio il poeta) e una sua dimensione che finisce – e ci si auspica finisca – per fare da palco e da scena ai momenti che nel corso dell’esistenza vale la pena salvare e custodire nel bagaglio che accompagna l’autore – ma in senso lato il lettore e l’uomo – nel viaggio della vita.
Una sensibilità, dunque, ecologista e ambientalista che inevitabilmente risente e probabilmente si nutre anche dell’impegno del Marano attivista, da sempre coinvolto nell’associazione che dà il nome proprio alla lirica appena citata: “Fare Verde”, attiva sin dal 1986. Uno sguardo privilegiato alla natura che non è mai sterile contemplazione delle sue bellezze, fine a sé stessa, ma un’attenta e attiva partecipazione ad accompagnare il corso delle cose nel pieno rispetto di quelle leggi che all’autore sembrano tanto palesi da poter essere declinate nella quotidianità dei giorni. Così la piantumazione di un albero o, meglio, l’invito a farlo diviene espressione lirica che si allinea alla liturgia di un atto solenne e disvela tutta la distanza da una possibile connotazione di questa poesia come “poesia delle piccole cose”.
Non sono le piccole cose le protagoniste di questo viaggio nel “verde”. Tutt’altro. Nell’osservazione del “giardino del pianeta” ogni atto, ogni gesto – qui – è il tentativo di armonizzare il suono di un singolo strumento alla melodia di un’orchestra più grande e infallibile: non è il piccolo del quotidiano a riempire la scena come protagonista che fa della sua finitezza anche l’assoluta grandezza della dimensione umana quanto piuttosto la parte – parziale, appunto – di un disegno più ampio, affascinante nella sua totalità e drammatico nella sua posizione di vittima di una cieca ottusità che ne compromette l’essenza; essa stessa restituzione di una dimensione umana ormai quasi non più percettibile nel quotidiano dell’uomo (L’opulenza copre / la povertà del vivere civile. / L’uomo annega nell’uomo).
C’è un impianto di pensiero importante dietro questo volume tascabile che oscilla fra sentimento e ragionamento; che tenta di ampliare il più possibile i contorni della riflessione fino ai limiti della risposta attiva. E in questo senso mi pare di poter identificare all’interno della silloge due gruppi ben distinti di poesie, proprio afferenti alle due macro-aree appena identificate. Da una parte cioè l’osservazione e la riflessione sulla natura che viene qui tradotta in liriche illuminanti e dal fascino quasi romantico dove l’elemento “giardino”, la natura più in generale, è vero e proprio teatro e custodia di segmenti dell’esistenza umana non solo considerati nella loro concretezza ma anche – e forse soprattutto – attraverso il filtro dell’elaborazione della consapevolezza. La lirica che dà il nome alla raccolta (che credo non casualmente sia posta anche ad apertura del canto) è una splendida summa dei concetti e dell’impostazione che da lì in poi si svilupperanno lungo tutta la raccolta dei venticinque componimenti di Marano.
Qui gli elementi concreti, tangibili, portano un segno di “temporalità” (panche di legno e ferro / d’inizio Novecento) e di “vitalità” (fanno la ruota / tra i ciuffi d’erba del giardino / buffi colombi) direi opponenti ma che ben sintetizzano un panorama nel quale lo stagliarsi di entrambi nella scena sembra quasi mantenersi ‘altro’ da essa, (altrove troveremo che «se ne fregano i gabbiani»), fatta invece di annotazioni indipendenti che non interagiscono col resto (Sotto un cielo coperto / guardiamo i pini agitati dal vento / le palme dondolanti / e la gran chioma rossiccia / del pruno): siamo “noi” a guardarli; atteggiamento che torna sul finale, nei «vecchi – che – parlano piano, / di com’erano leggeri e spensierati / i giorni della loro festa» questa volta con un dettaglio in più: l’osservazione non è più alla scena circostante ma al panorama della vita, al ricordo, al senso del tempo col quale la scena della natura sembra identificarsi nella misura in cui immutabile è e resta mentre tutto ineluttabilmente scorre. Chiude così il cerchio l’ultima lirica della silloge che molto chiaramente si riallaccia all’esordio appena citato. Il panorama è ancora quello degli ulivi e dei «penduli fiori / blu» e ancora una volta c’è meditazione anche nostalgica sul senso del tempo e, stavolta, del “proprio” tempo, dove protagonista è l’io, il quale canta: «Resto alla finestra / ancora un po’ sopra pensiero. Sul mio quaderno aperto / scorre la sabbia della clessidra». Ed hanno un fascino tutto particolare questi ultimi due versi a chiusura della raccolta dove pare che il tempo non risparmi neppure una delle “armi” che il poeta ha identificato come reazione e salvezza possibile rispetto al senso del tempo e all’interno del contesto del mondo naturale a cui appartiene e ne rivendica l’appartenenza. Il quaderno aperto è la poesia in potenza che nasce dalla meditazione “alla finestra” al di là della quale l’unico mondo possibile è quello naturale! («Ti chiedi: dov’è la grazia del mondo, ma lo sai, c’è grazia nella poesia», G. Conte in Introduzione). Segnalo il primo verso di quest’ultima poesia che ne è anche titolo, Scuote l’ulivo l’umido vento dove la posizione dei due sostantivi accostati dopo il verbo, sebbene comprensibilissimo nella giustezza della figura retorica composta e strutturalmente ineccepibile dal punto di vista metrico, lascia pure un margine sottile di ambivalenza dove è consentito immaginare che sia quasi l’ulivo a scuotere il vento e non il più logico contrario.
A questo gruppo e a questa impostazione credo possano essere accostate anche le poesie Tutto è avvolto da un solo colore, Colpirà la fanciulla con la fionda («che compare improvvisa in un tuo testo, rendendolo magico e lirico», G. Conte), L’azzurra canzone del mare, Nella roccia che ha le fattezze del cinghiale (potente nella grande domanda «Dov’é Dio?» e affascinante nella tenera risposta «Forse nella tua bocca vermiglia»), Questa nudità della carne, Se ne fregano i gabbiani, e Il felice tripudio delle rosse foglie. Un gruppo nel quale la ricercata sintesi fra sensibilità estetica e ispirazione ambientalista è traduzione lirica dell’incontro fra elaborazione formale e vocazione sentimentale.
A questo punto, però, pare che il poeta non si accontenti della semplice osservazione e contemplazione della natura come teatro del proprio tempo e del tempo dell’uomo: ha necessità di tradurre tanto sul piano letterario quanto concretamente il dissidio che matura dalla riflessione; cominciare a riempire le pagine del quaderno su cui scorre la sabbia della clessidra. E il sentimento di fronte allo scempio sulla natura operato dall’uomo è un sentimento repulsivo e forte («Non ha forse la rivoluzione industriale decretato la fine della natura?», come sostiene l’autore stesso nell’introduzione) che tenta di tradursi in una protesta. A suo modo direi speciale perché opera inevitabilmente sul contenuto ma lo fa coinvolgendo in modo affascinante la forma attraverso l’uso consapevole di stonature e storpiature consapevolmente architettate sul piano formale come allarmi del contenuto che riflettono. Ed è questa la caratteristica, a mio avviso, più evidente del secondo gruppo di poesie dove un finissimo labor limæ espresso non tanto o non solo nel vezzo della parola ricercata e rara quanto in una sorta di distonica associazione strutturale fra il ritmo e la melodia, al fianco di una sensibile cura metrica, esercita una voluta frazione di rime e assonanze che sembrano mirare di proposito a creare solleciti recitativi che “l’orecchio mentale” percepisce come aspri, quasi respingenti. Di certo catalizzatori di ulteriore attenzione: «Non è facile ritrovare / la perduta armonia / senza un governo assennato / che rispetti la terra». Qui, per esempio, governo assennato è quanto di più lontano dalla lirica perduta armonia a cui si abbraccia. È come se il poeta volesse spargere accenti, quasi segnali d’allarme che, in luogo dell’esplicita menzione – probabilmente banale e fuori luogo per un testo lirico così fortemente ispirato – si fanno veicoli di un disappunto di certo perfettamente coglibile ma non nell’esplicitazione di una prosaica protesta. Anche questa, qui, viene assorbita in un contesto lirico che è parimenti evocativo e descrittivo e che nelle figure retoriche adoperate concentra un supplemento di significato “ostativo” perfettamente contestualizzato. Credo sia proprio qui che si percepisca meglio quanto esplicitato nella prefazione: «Queste poesie rappresentano in qualche modo una protesta» rispetto a un mondo che «nonostante abbia più mezzi, più sapere, più tecnologia(…) non per questo ci rende più felici».
Risulta così affascinante come, nella medesima poesia del “governo assennato”, si proceda poi con delicati e mirabili momenti lirici, quasi sorprendenti al confronto e delicatissimi, per esempio anche solo nel gesto di «piantare almeno un albero / (io stesso un dorato albicocco / e un nespolo da fiaba orientale / ho messo a dimora con le mie mani / e più d’un pino ombroso)». Ulteriore esempio di come la riuscita costruzione ritmica di questi versi se pure si allunghi e si distenda su tutto il componimento, parimenti scandisca anche espressioni più distoniche appositamente accostate quali, in questo caso per esempio, «camminare, consumare meno e meglio» che, pur metricamente perfetto, ha più l’aspetto di un moderno slogan appositamente collocato lì. Quasi come canzoni che mantengono pervicacemente il ritmo divertendosi a lanciare segnali intaccando la melodia con accordi “fuori giro”. E così per tutta la silloge.
Non è mai un lirismo esasperato quello di Marano ma non userei né il termine misurato né crepuscolare sebbene facile sia la tentazione di voler identificare matrici culturali definite e “rotonde”. Che pure ci sono – e direi evidenti – ma pare piuttosto un vero e proprio gusto che esprime esteticamente i contorni di un ambient nel quale arricchire di contenuto la sua percezione più che la sua trasmissione (probabilmente il concetto è più comprensibile se si pensa all’atto di arredare una casa) e quel contenuto, a sua volta, strutturato in modo da inserire Marano nel solco di quelli che non senza difficoltà potremmo definire poeti ambientalisti. Difficoltà rivenienti da un possibile fraintendimento. È lo stesso Marano a indicare altrove un preciso guado: «Non basta incantarsi di fronte ad un filo d’erba e descrivere nei modi propri della poesia questo incantamento(…). Ecologismo, infatti, non è sinonimo di sentimentalismo né di naturalismo(…). Occorre ancora avere la consapevolezza di una rottura traumatica del legame tra uomo e natura(…) e insieme la volontà o almeno l’aspirazione a sanare quella rottura, a riannodare il filo spezzato» (Barbadillo.it). E cos’è allora quello “stonato” profumo di protesta a cui si accennava sopra se non proprio il passo oltre quel guado? E che fa del poeta e, in particolare, di questa silloge un ricco corredo di autentica ed elaborata sensibilità ambientalista.
Per quanto sia pessimo terminare con una domanda, credo che le risposte siano già tutte arrivate per prime.
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