La svergognata Contessa di Dia

di Italo Spada

 

Tra i testi di poesia provenzale del XII secolo, pervenuti come componimenti per trovatori, ce n’è uno attribuito alla Contessa di Dia[1] che lascia poco spazio all’immaginazione. A parlare in prima persona (con Voce Fuori Campo) è una Dama che non si dà pace per avere sprecato l’occasione di corrispondere l’amore di un cavaliere. Solo quando l’uomo non c’è più, in preda al rimpianto, ella grida a tutti di essere in grave angoscia e di avere vissuto nell’errore.

Se tutto si concludesse con il rimpianto, la poesia sarebbe solo un’anticipazione del tema crepuscolare di Gozzano: “Il mio sogno è nutrito d’abbandono, / di rimpianto. Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state …”.[2]  Ma non è così. La donna, infatti, riconosce che ciò che poteva succedere non è successo solo per colpa sua e questa amara constatazione le fa perdere il controllo di sé. Tanto era stata prudente prima (ha avuto il cavaliere, ma non gli ha donato l’amore), quanto è imprudente adesso (vuole che si sappia in giro che ha amato quest’uomo senza misura).

Che cosa è successo? Non lo sappiamo, ma lo possiamo intuire.

Un cavaliere arriva nel castello dove vive la Dama, presumibilmente già sposata, o comunque “impegnata”. Tra i due nasce l’amore e, quando le cose si complicano, lei è costretta a scegliere tra il marito e l’amante. Sono altri tempi; tempi nei quali questa scelta poteva significare disprezzo, odio, vendetta, condanna, morte. La Dama, allora, decide di sacrificare l’amore e di vivere nella falsità, sia di giorno (vestita) che di notte (nel letto). Ma, con il passare del tempo, si rende conto che ha fatto la scelta sbagliata. E allora non le resta altro che vivere quell’amore nella fantasia. E si scatena in una serie di… sovrimpressioni.

In sedici versi – dal verso 9 al verso 24 – la Contessa di Dia condensa scene osé, solo in parte attutite da classiche espressioni d’amore (“io gli dono il mio cuore e il mio amore, / la mia ragione, i miei occhi e la mia vita”) e da citazioni letterarie, come quella della leggenda di Florio innamorato di Biancofiore. La sua sensualità esplode nella voglia di avere tra le braccia il cavaliere nudo, di fargli da guanciale, di metterlo al posto del marito, di farsi autorizzare a fare quello che vuole.

C’è un capitolo della storia del cinema italiano che molti vorrebbero cancellare del tutto e che riguarda la produzione in serie di film appartenenti a un genere per soli uomini, destinato a sale di terza categoria, con battute da caserma, scene scabrose e  trame inesistenti o scontate.

È ingeneroso accostare “Sono stata in grave angoscia” a  quel filone. La Contessa di Dia sarà pure svergognata, ma è soprattutto innamorata.

 

[1] Sul suo conto si hanno scarse notizie. Si suppone che sia vissuta nella seconda metà del secolo XII e che sia stata moglie del conte di Poitiers. Conosciuto il celebre trovatore Raimbaut d’Aurenga, ne divenne l’amante.

[2] Guido Gozzano, Poesie, Rizzoli BUR, 2000, p. 206

 

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