“Contraddizioni” di Vito Davoli
di Marco Cinque
Ho letto con molto interesse e curiosità la raccolta poetica “Contraddizioni”, di Vito Davoli, ma premetto che non voglio entrare in una dimensione critico-letteraria, non ne ho le competenze e inoltre temo che, in questi termini, sarebbe comunque un contributo stucchevole e inutile. Infatti sono quasi convinto che, se si tenta di spiegarla, la poesia si spezza o finisce in rovina. Per questo evito di addentrarmi in autopsie e vivisezioni di un linguaggio che, per sua natura, risulta inafferrabile, indefinibile, allergico a etichette e definizioni. Così, quando mi accingo a leggere versi che non conosco, cerco di spogliarmi di tutto ciò che conosco o che credo di conoscere. Insomma, in qualche modo cerco di tornare quanto più possibile allo stato primigenio della parola poetica, per riuscire a decifrare l’abc di ciò che sto leggendo e per entrare nei testi senza i vincoli dei pregiudizi e dei preconcetti.
Dunque è così che mi sono immerso in questa raccolta di Vito Davoli. Dico “immerso” perché il senso che mi ha pervaso alla lettura di queste poesie è quello di un’immersione nel mondo interiore dell’autore, negli sprofondi del suo animo, nel coraggio un po’ incosciente di mostrare le sue contraddizioni, che poi contraddizioni non sono. Non lo sono perché, da quel che ho letto, percepisco una maturità consapevole, una capacità di stare in equilibrio sul filo sottile che divide la realtà dalla finzione, la verità dalla menzogna. È quell’equilibrio che fa di ogni contraddizione una risorsa, di ogni errore un gradino da aggiungere alla scala della nostra crescita, della nostra consapevolezza.
Negli anni ’60 e ’70, una delle parole d’ordine era proprio quella di “affrontare le proprie contraddizioni” prima di esprimere giudizi sugli altri e sul mondo. Questo era e continua ad essere un passo fondamentale e necessario per affermare la propria coerenza e per non marcare distanze tra la prassi delle parole e la realtà dei vissuti.
Quel che inoltre mi colpisce è l’eleganza che sembra fluire spontanea dai versi di Vito, dove la parola non è fine a sé stessa, non è auto celebrativa, non è insomma quello strumento del dire che alimenta l’esibizionismo narcisistico che affligge molti, troppi poeti che, così facendo, finiscono irrimediabilmente per cantarsele e suonarsele. E se l’andazzo è questo, se i poeti e i letterati si parlano e si capiscono solo tra loro ma non riescono a farlo col resto del mondo, la poesia è irrimediabilmente destinata ad estinguersi.
Sia nei testi più brevi che in quelli a passo più lungo di questa raccolta, mi sembra di cogliere un malessere, un dolore irrisolto, ma anche la necessità e la voglia di esorcizzarlo. E Vito riesce in qualche modo a elaborare con grazia poetica il “lutto” delle sue contraddizioni (o non-contraddizioni che siano). In questo senso la poesia può diventare persino una terapia, una cura per i mali che ci affliggono. Quindi tornare utile per chi la legge e necessaria per chi la scrive, ma anche viceversa.
Grazie Vito, per avermi dato l’opportunità e il privilegio di leggerti.
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