La poesia nella società contemporanea
di Giorgia Loi
Quando affronto il tema – poesia a scuola con gli studenti, di solito propongo loro l’immagine del testo poetico accostandola a quella di un quadro tridimensionale: per comprendere bisogna guardare in profondità, entrare nel testo, viaggiare con gli occhi e il cuore di chi l’ha concepito. Diversamente si resta in superficie e non si può amare ciò che non si comprende.
A che cosa serve, dunque, la poesia? È un quesito che ho dovuto affrontare spesso in aula nella mia esperienza di insegnante. È ancora un tema difficile, un genere di nicchia anche nel mercato del libro: non vende quanto la narrativa.
I poeti sembrano spesso un mondo a parte, di incompresi, frustrati, depressi e folli, visionari, schegge impazzite nel fluire del tempo. Salvo, poi, rendersi conto, leggendo a fondo le loro parole, che sono gli unici ad avere il polso della storia, la percezione profonda del loro e dell’altrui tempo, che ogni verso è sofferto e incardinato nella realtà, che ogni parola è scelta con cura per strappare il lettore a una vita di superficie.
Ricorderemo tutti la lezione del professor Keating ne “L’attimo fuggente”: “Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.” La bellezza salverà il mondo, scrive Dostoevskij ne “L’idiota”, ma quale bellezza? Non certo la vacua rappresentazione di una forma esteriore, quanto l’indiscutibile manifestarsi del bene che l’uomo opera nella storia e nella società: quella potente virtù socratica capace di trasfiguare gli esseri umani riportandoli al germe della loro umanità per trasformarlo, il mondo. “Homo sum…”: sono un uomo e nulla di ciò che mi appartiene reputo a me estraneo, leggiamo nelle parole di Terenzio.
I poeti hanno il privilegio di saper leggere quello che accade o che accadrà nella storia del mondo e sanno interpretarlo sfruttando la massima potenzialità espressiva della parola che diventa carne e anima, luogo d’incontro tra gli stati d’animo di chi scrive e chi legge, racconto doloroso di un’epoca ma anche paradigma e modello per il tempo che verrà. La Divina Commedia è un’opera immortale perché lo specchio della società rappresentata è un archetipo sempre valido, operante, in cui trovare conforto e scampo: Dante offre con le sue terzine un’analisi perfetta dei Mali del suo tempo, ma anche una via maestra per affrontarli. Ci riconosciamo nei limiti umani dei personaggi che sfilano nei suoi versi, ma anche nel loro tentativo di autocorrezione improntata al bene o, viceversa, di discesa inesorabile verso l’abisso.
Molte delle poesie di Ungaretti sono scritte su foglietti improvvisati dietro la trincea, sotto il fuoco nemico: la brevità della poesia dell’attimo ci spiazza, è capace di concentrare in poche parole isolate, prive di punteggiatura, di nessi logici, tutto il dolore di una guerra vissuta in prima persona, vediamo i morti, i “brandelli” di case distrutte, l’aridità della terra ferita, ma ne sentiamo anche la speranza, l’attaccamento disperato alla vita, la consapevolezza delle cose perdute.
E poi ci sono poeti che hanno fatto dei versi un’arma di lotta civile, di protesta, di denuncia dell’ingiustizia. Le terzine dantesche addolcirono la permanenza di Primo Levi ad Auschwitz, Solženicyn nel gulag compose centinaia di versi imparandoli a memoria, Mildred Harnack, che cospirò contro Hitler, trascorse le ultime ore prima della sua esecuzione a tradurre poesie di Goethe, la maggior parte delle poesie di Nazim Hikmet è stata scritta durante la prigionia. Che dire del poeta spagnolo Antonio Machado? Costretto all’esilio durante la dittatura franchista, il poeta morì dopo un mese passato in Francia, di crepacuore per la grande delusione della guerra civile. Quella fatica del vivere è stata scolpita in versi bellissimi come nel testo “Cantares” dove appare l’immagine del poeta come pellegrino che traccia il cammino “colpo dopo colpo” (golpe a golpe), “verso dopo (a) verso”. Si potrebbe continuare a lungo.
Certo, non tutto è scontato nella comprensione del testo poetico: il linguaggio, il gioco espressivo, la stessa metrica possono essere muri se non si acquisiscono gli strumenti necessari a svelare il mistero della comprensione.
Rispetto alla prosa, la poesia è meno immediata, è come un quadro tridimensionale: senza conoscerne la tecnica, si resta fuori dalla sua bellezza. Non si può amare ciò che non si comprende. Il compito della scuola in questo senso è importantissimo, deve avvicinare gli studenti al testo poetico fornendo gli strumenti di comprensione come mezzo e non come fine. Il fine è cogliere la bellezza di cui parla Dostoevskij, incontrarsi con l’anima del poeta, accoglierne la disperazione, il dolore, ma anche la gioia, lo stupore per la vita, la meraviglia dell’esistenza, la familiarità con le cose care, la rabbia, le contraddizioni, per coglierne, in fondo, le proprie, guardare il mondo da angolazioni diverse, mettersi in relazione con i propri simili, interpretare la propria epoca. Se non si percorre questa strada, il rischio è fare quello che Cesare Cases chiama “uso medicinale della letteratura”, ossia “somministrare” un testo quasi come “terapia”, scaturigine di domande a scopo esclusivamente valutativo.
Studiare la poesia, invece, significa imparare a leggere la complessità dell’esistenza, saper decifrare la banalità e la superficialità spacciate per autentiche.
Un ruolo decisivo, in questa paziente edificazione utopistica di un mondo diverso, può averlo proprio la Letteratura, «funzione esistenziale, ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere», che deve delineare «degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura avrà una funzione» (I. Calvino, Lezioni americane, 1988).
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