L’Arminuta
Regia: Giuseppe Bonito
Con: S. Fiore, C. De Leonardis, V. Scalera, F. Ferracane, A. Fuorto, E. Lietti, G. Beranek, S. Petruzziello, P. Fiorita, G. Vallozza A. Barulli
Italia, 2021. Durata: 110’
di Italo Spada
Quando, nel 1927, Alan Crosland sperimentò il sonoro ne Il cantante di jazz, se alcuni registi sovietici (Ejzenstejn, Pudovkin, Alexsandrov) misero in guardia per il rischio di uno spostamento di interesse da ciò che si vede a ciò che si sente, Chaplin si espresse in modo decisamente negativo. Non esisteva ancora il doppiaggio ed egli, convinto assertore della potenza della mimica, disse che le parole complicano il messaggio.
Seguiamo il suo consiglio estrapolando tre sequenze mute (o quasi) da L’Arminuta, terzo lungometraggio di Giuseppe Bonito (4 candidature ai Nastri d’Argento e il David di Donatello).
La prima è quella di apertura. Un uomo è alla guida; al suo fianco c’è una ragazzina, l’auto si ferma nei pressi di una casa di campagna e l’uomo “scarica” la ragazzina. Non sappiamo ancora chi sono e quello che è successo; intuiamo però che qualcosa non va perché la ragazzina torna sui suoi passi e vorrebbe rientrare in macchina. Scopriremo che si tratta di zio e nipote e che la ragazzina, come si dice in dialetto abruzzese, è un’arminuta, una ritornata nel borgo isolato alle falde dell’Appennino dove ha visto la luce. Era partita ancora in fasce, quando i suoi genitori biologici avevano deciso di consegnarla a parenti “di città”. Ora ha tredici anni e non conosce il motivo per il quale la donna che ha sempre chiamato “mamma” l’abbia rifiutata. La famiglia che adesso se la riprende è quanto di più estraneo le potesse capitare: il padre rozzo e manesco, la madre triste e avvilita, un fratello maggiore (Vincenzo) che scalpita e contesta. Se non fosse per la presenza della simpatica e spigliata sorellina Adriana che riesce persino a far da mammina all’ultimo arrivato, giurerebbe di essere stata catapultata dal paradiso all’inferno. Stava bene in città: era figlia unica, viveva in una famiglia borghese, frequentava la scuola, aveva le sue amichette; ma allora perché trattarla come un oggetto?
Seconda sequenza: la famiglia biologica dell’arminuta è a tavola, ma nessuno parla. Si respira aria pesante e si intuisce che la tempesta è in arrivo. All’improvviso, il padre-padrone scatta in piedi, trascina il figlio Vincenzo in un’altra stanza e lo riempie di botte. Non deve essere una scena inusuale in quella casa, perché la paura attanaglia i presenti e persino la mamma, pur visibilmente sofferente per quello che sta accadendo, resta inchiodata al suo posto. L’arminuta non capisce, è smarrita e terrorizzata: Perché quel castigo? Che cosa ha fatto di grave suo fratello? È così che si educano i figli?
Terza sequenza: altro pranzo. Questa volta siamo in città, nella casa della ritrovata mamma adottiva. L’arminuta ora conosce la verità: dopo tredici anni è stata rispedita al mittente perché la donna che le ha fatto da mamma si è rifatta una nuova vita, ha un maritino e un bebè. Tuttavia, non le è bastato conoscere il vero motivo della sua esclusione; ha voluto anche vedere con i suoi occhi. È andata a trovarla trascinandosi dietro la sorellina Adriana. L’atmosfera di affettata accoglienza viene turbata dal pianto del neonato che arriva dalla stanza accanto. La mamma sta per alzarsi, ma il marito la inchioda: “No. Lascialo piangere! Prima o poi smetterà. Non si educa con le carezze!” L’aria è tesa. Il piccolo non smette di piangere e l’uomo continua a fulminare la moglie con lo sguardo. Allora interviene Adriana che sa come si culla un bambino: si alza, si allontana, sparisce. Si ripresenta con il piccolo che dorme tranquillo tra le sue braccia.
Stop. La storia, tratta dal romanzo di Donatella Di Pietrantonio premiato con il Campiello nel 2017, è ambientata nell’estate del 1975, quando l’introduzione della legge per il divorzio era già alle spalle (1970) e stava per arrivare la regolamentazione dell’aborto (1978). Se aggiungiamo anche gli echi del boom economico e delle contestazioni del Sessantotto abbiamo un bel po’ di materiale per ampliare i temi che vanno oltre lo schermo – abbandono dei minori, violenza domestica, maschilismo, educazione – e per dare vita ad un immaginario convegno. Invitati: psicologi, pediatri, pedagoghi, sociologi, maestri, politici, religiosi, genitori…
Lavoriamo di fantasia e, prendendo lo spunto dalle tre sequenze, diamo il via al dibattito. Chiediamo se c’è qualcuno che vuole intervenire. Facce smarrite, nessuno che alzi la mano. Allora si fa avanti una ragazzina della quale ignoriamo persino il nome, si schiarisce la voce e pronuncia una frase che ci riporta dal cinema muto al sonoro: «Non sono un pacco».
La raggiungono il fratello maggiore Vincenzo e la sorellina Adriana. Il primo dice: «Non sono una bestia da soma!»; la seconda: «Non sono un moscerino fastidioso!»
Gli schiaffi vanno oltre la vicenda filmica; gli attori hanno solo prestato i loro volti. Il vero bersaglio va cercato nella cronaca di tutti i giorni, nell’infanzia abbandonata e smarrita, nello sfruttamento dei minori, nell’ignoranza, nei diritti negati.
Viene voglia di aggrapparci ad un’immagine che stemperi l’amarezza e inviti alla speranza. La troviamo nel fotogramma che è diventato locandina.
L’arminuta è sulla spiaggia. Al suo fianco c’è Adriana. Hanno visto molte cose: il fratello morto in un incidente, la disperazione dei genitori, la mancanza di cultura, la povertà, l’egoismo dei grandi, il maschilismo… Ora, davanti a loro c’è solo l’immensa distesa del mare. Sanno che nel mare, come nella famiglia, non esistono certezze e che la calma, da un momento all’altro, potrebbe mutarsi in tempesta. Per questo conviene aggrapparsi a qualcuno che possa fare da salvagente.
Una sorella, per esempio.
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