per te. oggi
che potremo essere
non mi guarderò neanche. Già qui sono condensati gli elementi fondamentali per intraprendere il percorso strutturato in questa silloge. In qualche modo tutti gli strumenti più utili sono già messi a disposizione del lettore. Il tema del doppio, caro all’autore (ricordiamo che nella raccolta Surrealia, Segnali dall’Oltre e altri racconti, edita qualche tempo prima, entrambi i contributi di Maurizio Evangelista vertevano proprio sul medesimo tema) è qui un punto nodale attorno a cui si intrecciano giochi di ossimori e similitudini dai quali è complesso uscirne tentando di comprenderne un definito significato logico. Eppure il percorso è possibile. Già dal titolo: Mr.me che è evidentemente l’altro da sé, l’alter ego a cui l’autore affida la “messa in scena”, la rappresentazione del proprio io, mai passivo ma costantemente in rapporto a tutti gli altri io, diversi da sé, uguali o simili a sé e con i quali la vita e i percorsi umani si intrecciano in un montaggio cinematografico che l’autore ripropone proprio nella struttura di quest’opera. Piacevole casualità o geniale spunto ermeneutico, me (scritto minuscolo, come tutta l’opera che non presenta una sola maiuscola neppure dopo il punto fermo), oltre a prestarsi in modo straordinariamente appropriato a un contesto panoramico americaneggiante (al di là dei richiami al mondo hollywoodiano, è la produzione poetica della Beat generation alle radici letterarie di questo percorso e di quello dell’autore), essendo perfettamente funzionale tanto in italiano quanto in inglese, è anche acronimo proprio di Maurizio Evangelista. Quale migliore dichiarazione di “sdoppiamento” per il lettore che già nel titolo trova pure la conferma di quelle che scoprirà immediatamente dopo essere le stanze di un hotel? Mr. non è un vezzo anglofono modernista fine a se stesso: è titolo di un linguaggio formale che negli hotel prevede il saluto rispettoso ai suoi ospiti. Benvenuti quindi, signori, in hotel… ecco la via per le stanze! «Lo spazio fisico e umano ricostruito nella raccolta – come sottolinea Mara Venuto intervenendo su bottegaportosepolto.it – è cinematografico non solo per i riferimenti a Norma Jean, James Dean, a King Kong e Jessica Lange: la scrittura prettamente icastica è capace di richiamare immagini nitide, come se i versi includessero una rappresentazione visiva». Così è, in effetti. Il gioco cinematografico messo su dall’autore, ci è parso prevedere proprio una sorta di MdP (nel gergo delle scenografie cinematografiche è l’abbreviazione che sta per Macchina da Presa), una telecamera che l’autore usa come filtro e strumento della composizione della propria poetica all’interno di questa raccolta. E l’andamento cinematografico è tradotto da un autore che se ne fa regista e che rende protagonista il proprio alter ego. Dietro la MdP si siede Maurizio Evangelista e di fronte manda in scena Mr.me. l’attore principale. Un io non-narrante che “parla” attraverso immagini, suggestioni, scene e stanze nelle quali «vanno in scena i plurimi e postumi teatranti di una vicenda umana che ha il sapore un po’ dei vecchi film in bianco e nero». Così recita la motivazione con la quale a Mr.me è stato assegnato il gradino più alto del podio nella VII edizione del Premio Internazionale di Poesia Arcipelago Itaca 2022. Stanze nelle quali – come prosegue Alessio Alessandrini nella motivazione del Premio – «prende vita la Vita con le sue prosopopee e le sue viltà, in una oscillazione quasi manichea tra presenza e assenza, interno e esterno, l’essere e l’essere altro da sé». Stanze numerate, questi i “titoli” di ciascuna poesia. E tutti i numeri sono dispari, semplicemente perché non esattamente divisibili. E il “gioco” si fa più evidente fra la distanza e la prossimità, tra la percezione della diversità (fino alla divisibilità) e l’impossibilità della realizzazione di questa poiché i richiami, i rimandi, i riflessi suggeriscono a gran voce e sottolineano i tratti comuni che in qualche modo uniscono le parti apparentemente altre e distinte. Sia che si tratti di Maurizio Evangelista e Mr. me, sia che si tratti della varia umanità rappresentata in ciascuna stanza, sia che si tratti del rapporto fra le vite all’interno delle diverse stanze sia infine che si tratti di queste rispetto all’attore principale e alla camera davanti alla quale si muove. Già, la camera… la MdP che funge da occhio attraverso il quale il lettore è chiamato a prendere parte in questa proposta di percorso. E il lettore non è affatto parte estranea a questa straordinaria “messa in scena”. Sarà un punto d’approdo importante più avanti ma proviamo a procedere con ordine, semmai ne sia identificabile e definibile uno. E non crediamo sia un fatto di voyerismo o di “sbirciatine”: la camera è posta quale occhio di ripresa in modo deciso e quasi prepotente, senza alcuna discrezione ma senza pure mai esondare nell’irriverenza o, peggio, nel giudizio morale. Ha un senso profondo questo modo di fare, questa sorta di presa di posizione; e ha il deciso sapore della Verità. Maurizio Evangelista non ha bisogno di scendere nel profondo di sé (almeno in questa raccolta) per scoprire e conoscere il proprio io. Lo fa ma non con questa finalità. Non serve: lo conosce già e lo conosce bene. E lo mette in gioco. Gli dà un nome, lo chiama Mister, lo invita dentro e gli dedica il titolo dell’opera! È necessario considerarlo un dato già acquisito, un “conto con sé stesso” il cui punto d’approdo coincide con il punto di partenza di questo nuovo percorso. Cerca qui piuttosto di scontornarlo, di definirlo, di portarlo alla luce per mostrarlo e quindi di metterlo in relazione ad altro e ad altri. L’operazione compiuta sul piano della “narrazione lirica” è, direi, compiuta per sottrazione. Mostrarlo e portarlo alla luce come si farebbe con un quadro di sabbia. Sottraendo cioè il “di più” perché ciò che resta prenda forma precisa e sia portato in luce retroilluminato. O come anche una sorta di radiografia dove il “di più” sottratto è nel risultato al negativo. E in questa operazione, rendere Mr.me protagonista non può non voler dire esimersi dal rischio di una mancata verità. La Verità cioé è prerogativa fondamentale affinché questa complessa operazione, di cui l’autore (il regista!) è perfettamente consapevole, riesca efficacemente senza sembrare un ridicolo e un po’ barocco gioco delle parti senza nulla più. È quindi una poetica, quella di Evangelista che, liberatasi non senza sforzo da qualche residua pastoia ermetica (inevitabile per chi, pur avendo intrapreso un percorso di formazione anti-lirica lontana dalla tradizione italiana, in quel terreno ha necessariamente affondato i passi misurandone profondità e consistenze) resta col suo spessore di complessità non perché cervellotica ma perché profonda e prepotentemente onesta. E non si tratta di una onestà e sincerità come vocazione a tutti i costi o come intento programmatico quanto piuttosto di un dato già e ormai acquisito da parte di chi ha fatto i conti con se stesso al punto da potersi permettere perfino di giocare con quella sincerità. In un gioco che si traduce e si esprime in una padronanza di linguaggio (spesso perfino quotidiano e coraggioso) e di registri vari di linguaggio che consentono al poeta di padroneggiare disinvoltamente con un’ironia matura, talvolta perfino sfrontata ma sempre intelligente e consapevole. «Uno stile che sa conciliare il lirismo sottile con la sfrontatezza e la leggerezza della parola comune» (A. Alessandrini). Converrà sostare su due poesie… pardon, stanze in cui è ben evidente la differenza di registri tonali e linguistici, considerato che in entrambe il soggetto è il medesimo: la figura della madre. Il registro ironico della prima (stanza 227) dà tutta la misura e la distanza dal registro lirico della seconda (stanza 411) che, in questo “inciampo lirico” inevitabile, si connota di una finezza e di una sincerità disarmanti.
Leggiamole entrambe: Stanza 227 mia madre vuole le sue foto di carta sul telefonino.
mi dice, vorrei guardarle spesso. prendile dal cassetto e sistemale sul tavolo,
le dico come stessi apparecchiando
per i nonni gli zii i nipoti. metti papà a capotavola
perché è l’uomo di casa
metti la nonna accanto al marito
perché è glicemia
noi bambini a un tavolino a parte
con il posto più vicino alla porta. esci fuori il servizio di porcellana
e i bicchieri del corredo
sistema il tovagliolo a triangolo
e assicurati che ci sia posto per tutti. mia madre fa ciò che le dico e poi
scatta una di quelle foto che non stamperà mai. le chiedo il perché e mi risponde,
che alla fine di una festa
si fa sempre una foto di famiglia.
ora ha una nostra foto sul telefono. proprio quello che voleva. Stanza 411 le ginocchia sbucciate come mele
che mia madre tagliuzza per tenermi a tavola
più a lungo. non le resta
che nutrirmi del suo sguardo non più alto del terrazzo
coi gerani che si abbattono sui miei dieci anni
e le biglie che rotolano più lontano da lei. Non mi resta che vincerle tutte
e riempire il mio berretto per portargliele in dono. lei preferisce i fiori. e i figli maschi fanno questo per le madri, portano fiori. rose e mimose quando torno da scuola
margherite o fiori di campo. per mia madre mi faccio ladro
e lei mi perdona. perché sono il suo. nessuna biglia nessun fiore
è sull’atlante del mio viaggio. ed è questo che mi porto dell’infanzia
una libertà che non mi sarà mai perdonata. Mr.me pertanto gode quasi di una vita propria, direi di una dignità non-intrinseca e tale perché si costruisce e viene costruita “stanza dopo stanza” in un continuo gioco duale con il regista da un lato e il contenuto delle stanze in cui osservare e riflettersi dall’altro. È in questo reciproco viatico biunivoco di potenzialità relazionale che sta tutto il senso e il bello di questa silloge. Così – sintetizzando – per giocare col dualismo bisogna essere in due. Ecco Mr.me! Stanza 115 se sbirciassi da questa stanza
una stanza simile a questa
sono certo che ogni cosa sarebbe la stessa
ma in modo diverso. in uno specchio
la valigia aperta ai piedi del letto
e i pantaloni che indosso. un libro aperto che non ho mai aperto
un paio di calzini bianchi sulla sedia
gli stessi della biancheria sporca. mentre parlo ad alta voce
mi chiudo la bocca. mentre sfioro il mio braccio destro
ho una mano sul mio braccio sinistro. e nella stanza nessuno
solo il mio riflesso
mentre dal vetro mi busso alla porta. C’è un dato essenziale che, in questa riflessione, va configurato e raffigurato: il senso dell’accesso a ciascuna stanza in relazione all’occhio che le osserva; che compie il breve percorso che porta la MdP ad entrarvi all’interno. Forse è necessario uno sforzo immaginifico, la creazione di un’immagine mentale che consenta di comprendere quale sia il momento cardine di questo gioco d’osservazione e quando smette di essere tale per convertirsi in uno scambio, in un riflesso, in un mutuo rapporto di definizione identitaria. E c’é un punto preciso, mai esplicitato ma continuamente sollecitato, in cui questa trasformazione prospettica prende corpo. La MdP che inquadra stanza per stanza, prima di accedervi o di zoomare, inquadra una realtà variegata e multimensionale (un corridoio forse; una lunga parete e una serie di porte, di accessi a quelle stanze – tutte dispari – a cui, percorrendo il camminatoio, si accede di volta in volta) nella quale è proprio l’occhio del regista e quindi dell’attore protagonista che ne interpreta le istanze, a fungere da trait d’union fra le diverse realtà (le stanze, appunto) nelle quali si definiscono momenti (ricordi, riflessioni, prospezioni, proiezioni) che non entrano mai in comunicazione fra loro se non attraverso Mr.me. Ciascuna stanza è un microcosmo a sé stante il cui perimetro si chiude su sé stesso ogni qualvolta la camera supera la soglia e accede in ciascuna di esse: dall’inquadratura spariscono tutti gli altri dettagli e l’universo di quel momento si definisce in quel particolare spazio e tempo che nella stanza trova il suo compimento. La stanza stessa è un concetto propedeutico alla comprensione del gioco messo su da Maurizio Evangelista. Chi ha viaggiato conosce le sensazioni da cui si è avvolti entrando in una “nuova” stanza d’albergo nella quale si soggiornerà per qualche tempo. È lo spazio, sempre uguale a se stesso, nel quale si definiscono vicende umane in tempi diversi. Ne restano i ricordi, le immaginazioni, il vissuto. Ma nel caso dell’hotel di Mr.me si verifica il contrario: un susseguirsi di differenti vicende umane nello stesso tempo ma in spazi incomunicanti fra loro. Se non attraverso il protagonista (d’avanti alla telecamera e da essa seguito) che in sé tutte le riannoda in un medesimo spazio e all’interno di un tempo che è quello della “narrazione”, della finzione poetica, non già quello reale: «ogni cosa sarebbe la stessa / ma in modo diverso» così come pure, per esempio «sono sempre un bambino / affacciato all’età di qualcun altro»; e così per tutto il percorso che in questa silloge si snoda passo dopo passo. È quindi la soglia di ciascuna stanza, più e prima della stanza stessa e di qualunque altro contesto presente nella raccolta, il momento cardine nel quale agisce più profondamente il “copione” scritto dal regista per essere interpretato dal protagonista. È l’attraversamento di quella soglia il momento preciso in cui la magia degli ossimori sembra risolvere le contraddizioni intrinseche agli stessi; in cui il tempo finzionale e quello funzionale diventano un tutt’uno; in cui ciascuno spazio definisce il suo perimetro per tentare di definire un’identità senza la quale nessuna comunicazione tentata da Mr.me sarebbe possibile. E l’attraversamento di quella soglia – l’esigenza di osservare all’interno della stanza per trovarci “qualcuno” in cui riflettersi o non riflettersi, da riflettere o non riflettere – è la risposta a una profonda esigenza relazionale che definisce finalmente le ragioni di questa architettura: è l’antidoto scientificamente e pazientemente ricercato da Maurizio Evangelista ad un profondo senso di solitudine che nella modernità, nella contemporaneità, come prodotto dello scorrere del tempo, sembra stagnare al punto da non consentire troppe vie d’uscita. Qui Mr.me ne segna qualcuna: più d’una, la cui strada è evidente che il lettore viene invitato a percorrere. Non è tanto la ricerca della felicità il focus caratteristico di questa raccolta quanto piuttosto – congiuntamente all’antidoto alla solitudine appena sottolineato – la comprensione della via per raggiungerla. Questo fine gioco relazionale, dunque, stabilito fra il protagonista e gli elementi del copione voluto dal regista, chiama in ballo il terzo personaggio di questo particolarissimo intrico che è lirico sul piano strutturale e che diventa “tridimensionale” quando il dato della realtà apre un varco diretto e tutt’altro che inaspettato.
Se le stanze rispondono a una necessità relazionale – appena indicata – che si gioca tutta all’interno delle ascisse e delle ordinate (bi)dimensionali che definiscono la realtà del testo, se cioè giocare con l’io – come fa Evangelista in modo particolarmente affascinante in questa raccolta – non può non voler dire mettersi in discussione, farsi domande, percepire se stessi anche dalla percezione (riflesso) che l’altro a del (Mr.)me, è anche vero – tanto per non abbandonare la chiave cinematografica – che un film viene girato per una ragione specifica: essere proiettato; essere mostrato! Se questo è una specie di «vecchio film in bianco e nero», cosa se ne fa il protagonista della percezione di se stesso? Sarebbe completamente inutile se non fosse intrinseca, in questo contesto, la necessità di mostrarla. Esattamente la ragione per la quale un film viene girato. Mostrare! Si comprende allora meglio come in questo strutturato gioco di rivelazione, la Verità, l’onestà di chi senza paure si mette in scena, si pone di fronte alla camera, è prerogativa necessaria per evitare inciampi e rischi di falsificazioni che un processo così profondo avrebbe inevitabilmente finito per svelare rendendo inefficace, se non ridicolo, tutto l’impianto su cui è fondata la silloge Mr.me. Si arriva così al terzo personaggio accennato sin dall’inizio di questa lettura. L’elemento della tridimensionalità che consente di superare e quasi strappare la bidimensionalità che comincerebbe e finirebbe solo dentro i termini e i margini della raccolta. Con il terzo personaggio si superano il tempo e lo spazio e si contestualizzano universalmente tutte le riflessioni, tutta la filosofia di Mr.me facendola uscire, liberandola dal semplice contesto delle pagine di un libro. Perché il terzo personaggio, sempre latente fin dai primi passi, mai assente in nessun momento dei percorsi per stanze di Mr.me, è il lettore! Se è vero com’è vero che un film viene girato per essere mostrato (allo spettatore, senza il quale non avrebbe senso alcuno l’operazione), è altrettanto vero che quest’architettura “cinematografica” sulla quale è strutturato Mr.me prevede necessariamente un lettore; dal quale non può né deve prescindere perché è lì e in lui che il cerchio si chiude e rivela il senso di questa operazione profonda. Stabilendo così anche il compimento e l’efficacia di quell’antidoto alla solitudine che proprio nel lettore concretizza ciò che concettualmente nel “copione” era solo stato raccontato e rappresentato. E in questo modo si arriva pertanto al check-out. Un fascino arzigogolato di numeri e parole al futuro (non inteso come tempo verbale ma come proiezione di eventi) nel quale il regista Maurizio Evangelista sembra dichiarare un invito e una intenzionalità nella consapevolezza di aver ormai consegnato all’ospite che si accinge a lasciare l’hotel un bagaglio di esperienze non estranee al trasporto nella realtà fattuale fuori dall’hotel stesso. È come se il recepcionist dell’hotel con un sorriso leggermente ironico dicesse rispettosamente all’ospite «Grazie per averci scelto. Speriamo l’esperienza sia stata di suo gradimento… ma non creda che ciò che da ora in poi troverà fuori di qui sarà poi così diverso da quello che qui ha vissuto. E dal percorso che ha ora intrapreso». E che viene quasi lasciato in dono all’ospite. Un souvenir destinato a rimanere per lungo tempo nelle mani di chi lo ha “sfogliato”.
«la notte non ti vuole indietro / e il giorno di cosa potrebbe aver paura».