La poetica antiborghese di Ardengo Soffice

di Sandro Marano

 

«Inzuppa 7 pennelli nel tuo cuore di 36 anni finiti ieri 7 aprile
E rallumina il viso disfatto delle antiche stagioni
Tu hai cavalcato la vita come le sirene nichelate dei caroselli da fiera
In giro,
Da una città all’altra di filosofia in delirio
D’amore in passione di regalità in miseria
Non c’è chiesa cinematografo redazione o taverna che tu
non conosca
Tu hai dormito nel letto d’ogni famiglia
Ci sarebbe da fare un carnevale
Di tutti i dolori
Dimenticati con l’ombrello nei caffè d’Europa
[]
Ma il canto più bello è ancora quello dei sensi nudi
Silenzio musica meridiana
Qui e nel mondo poesia circolare
L’oggi si sposa col sempre
Nel diadema dell’iride che s’alza
Siedo alla mia tavola e fumo e guardo
Ecco una foglia giovane che trilla nel verziere di faccia
I bianchi colombi volteggiano per l’aria come lettere
d’amore buttate dalla finestra
Conosco il simbolo la cifra il legame
Elettrico
La simpatia delle cose lontane
Ma ci vorrebbero della frutta delle luci e delle moltitudini
Per tendere il festone miracolo di questa pasqua
il giorno si sprofonda nella conca scarlatta dell’estate
E non ci son più parole
Per il ponte di fuoco e di gemme
Giovinezza tu passerai come tutto finisce al teatro
Tant pis Mi farò allora un vestito favoloso di vecchie affiches.
»

 

La lunga poesia Arcobaleno, di cui proponiamo la parte iniziale e quella finale, fa parte di un volumetto che Ardengo Soffici (1879 –1964), scrittore, pittore, critico letterario e poeta tra i più significativi e luminosi della prima metà del ‘900,  ormai in procinto di arruolarsi come volontario per la grande guerra, pubblicò nel 1915 per le edizioni della Voce col titolo inequivocabilmente futurista: BifSzf + 18. Simultaneità. Chimismi lirici. 

L’amore per l’Italia e il disprezzo per il vecchio sclerotizzato mondo politico da un lato e la pittoricità della sua vena poetica dall’altro si mescolano in Soffici e si trasfondono nelle sue composizioni futuriste, che insieme a quelle delicatamente impressioniste di Luciano Folgore, a quelle giocose di Palazzeschi e ad alcune rutilanti di Marinetti sono quel che di più valido il Futurismo ci ha lasciato nel campo della poesia. «La poesia del Futurismo è stata però meno dei Manifesti. Ma ha una sua storia appassionata. È l’unica poetica rivoluzionaria che abbia avuto la letteratura italiana» (Francesco Grisi, I futuristi, Newton, 1990).

Soffici usa magistralmente tutte le innovazioni linguistiche teorizzate dal Futurismo: dallo stravolgimento delle regole grammaticali e logiche, all’uso a piè sospinto dell’analogia, dall’elencazione all’assenza di punteggiatura. Ad esse aggiunge la simultaneità, la compresenza di luoghi e tempi, rimescolando sensazioni del presente e momenti di vita vissuta, sposando il quotidiano alla storia, l’oggi al sempre. Eccone un esempio eloquente tratto dalla stessa poesia:

 

«Tu ti ricordi insieme ad un bacio seminato nel buio

Una vetrina di libraio tedesco Avenue de l’Opera

E la capra che brucava le ginestre

Sulle ruine della scala del palazzo di Serse a Persepoli». 

 

Come osserva Antonio Pietropaoli, Soffici non nacque poeta, ma arrivò alla poesia attraverso un lungo tirocinio di critica letteraria e di prosa e nei Chimismi si rivela «non soltanto uno dei maggiori poeti del suo tempo, ma anche poeta d’istinto» (in Poesie in libertà, Napoli, 2003). Nella sua produzione poetica i critici sogliono distinguere due periodi nettamente separati, uno futurista e l’altro classicista, svalutando brutalmente il secondo e salvando in qualche modo il primo.

Emblematico, a questo proposito, è il giudizio – peraltro largamente condivisibile – del critico Pier Vincenzo Mengaldo: «l’unico momento veramente interessante è quello futurista», mentre appaiono «di scarso rilievo le poesie giovanili, riprovevoli quelle successive alla prima guerra improntate ad un insulso classicismo» (in Poeti italiani del Novecento, ed. Mondadori).

Sennonché l’aggettivo “riprovevoli” indica non un giudizio estetico, bensì morale: qui il critico vuole condannare l’adesione al fascismo, cui Soffici si mantenne fedele anche dopo la seconda guerra mondiale. E a conferma della gratuità e pregiudizialità di questo atteggiamento dell’illustre critico citiamo la sua conclusione: «anche nelle poesie migliori dei suoi trent’anni si legge benissimo la perniciosa superficialità dell’uomo Soffici», che consisterebbe poi nel suo approdo al neoclassicismo rurale e fascista. Ma lo stesso Mengaldo finisce poi per contraddirsi, giacché non può fare a meno di riconoscere che in Soffici la «modernità stilistica può produrre risultati singolarmente freschi».

A ben guardare, non c’è in Soffici uno iato tra i due momenti dell’avanguardia e del ritorno all’ordine, tra il periodo “anarchico” e quello “fascista”: il suo “anarchismo” era piuttosto aristocratico ed esistenziale, era meno utopismo che insofferenza alle vecchie logore formule  e il suo “fascismo” era piuttosto nazionalpopolare e comunque mai scevro di spirito critico.

Scrive, non a torto, Aurelia Accame Bobbio: «Rifiutando la base materialistica il suo richiamo all’ordine tendeva a fondarsi già prima dell’avvento del Fascismo al potere su quei valori tradizionali della civiltà italiana dalla religione alla famiglia, dall’economia prevalentemente agricola all’arte rinascimentale, valori che la politica del Regime pareva assecondare».

Del resto, la ricerca d’un ordine personale e sociale accomuna i maggiori intellettuali del ‘900, di diverso ed opposto orientamento, da Pierre Drieu La Rochelle ad André Malraux, da Curzio Malaparte a George Orwell.

Dietro la maschera della negazione, del rifiuto della morale borghese, di cui Soffici dà un magnifico saggio nel Giornale di bordo (1914), c’era la volontà di un costruttore, il carattere di un combattente per una nuova Italia. La capacità di guardare alla vita con occhio innamorato è una costante in tutte le sue opere, sia letterarie che pittoriche, insieme ad un certo vitalismo di sapore nietzscheano e allo spirito di rivolta.

La stessa adesione al Futurismo non fu acritica, ma frutto di un progressivo avvicinamento e filtrata dalla sua particolare sensibilità che poneva al primo posto la fusione con la natura, l’adesione alla vita. È noto l’episodio della scazzottata con i futuristi milanesi del 1911 dopo la sua stroncatura del Futurismo definito “il baccano futurista”, apparsa sulla rivista La Voce. E qualche tempo prima, era il 1910, sulle stesse pagine, aveva scritto: «Trovo ancora il buon vecchio sole abbastanza interessante per non buttarlo nella cassetta della spazzatura, come un’arancia andata a male; non ho rancori personali con le stelle; né per i begli occhi di una lampadina ammazzerò il chiaro di luna».

Se i futuristi milanesi e i futuristi fiorentini condividevano l’insofferenza del presente lo spirito antiborghese e il desiderio d’un rinnovamento, erano però separati dal senso amaro dell’esistenza, dall’assimilazione anziché dal rifiuto del passato, da una certa sfiducia nella civiltà tecnica e industriale, tratti questi affatto assenti nei primi e presenti invece nei secondi. Soffici fu dunque un futurista sui generis.

Soffermiamoci ora su questo semplice e incantevole verso della sua poesia Arcobaleno:

«Ma il canto più bello è ancora quello dei sensi nudi»

A che cosa allude quel canto dei sensi nudi che per il poeta è il più bello? Senza dubbio alla giovinezza, all’amore, alla vitalità, che l’eccesso di cultura, di norme sociali e giuridiche mortifica. La cultura, insegnava Ortega y Gasset, con l’andare del tempo, da risposta vitale si converte in luogo comune, da soluzione ai problemi che la vita pone in fardello, da fede viva in fede inerte. L’uomo, scrive il filosofo spagnolo in Intorno a Galileo, uno dei suoi saggi più significativi,  «corre il rischio di perdersi nell’intrico dei suoi saperi» e la vita si svuota, si fa inconsistente e instabile. Ed allora non resta che il ritorno alla natura, all’autenticità del vivere: «l’uomo deve periodicamente scrollarsi di dosso la sua cultura e rimanere nudo».

La prima metà del Novecento è il tempo delle crisi storiche e delle rivoluzioni e al poeta è affidato un compito preciso: svelare la storia a chi la vive

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