Per Luigi non odio né amore di Gianni A. Palumbo, Scatole parlanti, 2020

di Vito Davoli

 

Il lettore è chiamato ad essere parte attiva all’interno del testo che, così come strutturato, offre la possibilità di intraprendere percorsi differenziati e diversificati attraverso i quali poi giungere comunque alla medesima o meglio, alle medesime radici dalle quali ha preso vita l’ispirazione e il concepimento ideale del romanzo stesso. È una formidabile architettura dove nulla è lasciato al caso e in questa pressoché infinita varietà di percorsi possibili, sarà opportuno intraprenderne qualcuno, anche un po’ azzardato, che dimostri i vari sentieri narrativi e i vari livelli attraverso cui si può percorrere quest’opera e che in qualche modo si stacchi da quanto su questo romanzo è già stato detto.

Per Luigi non odio né amore, ormai al suo terzo anno di vita nel momento in cui si scrive, ha potuto collezionare nel tempo diverse letture critiche. Un romanzo, quindi, particolarmente apprezzato sia dal pubblico che dalla critica anche quella – per la verità sparuta e rara – che, dovendolo fare per forza, ha creduto di sottolineare qualche debolezza per esempio nella caratterizzazione di taluni personaggi apparsi, a loro detta, deboli. Il commissario Fano, per esempio, a fronte del quale la sua assistente Marta Salvo parrebbe (e lo é ma con ragione) ben più definita e più “scontornata” nello stagliarsi contro il panorama delle vicende che si susseguono nel romanzo. Dissentiamo profondamente da questa lettura giacché riteniamo che nulla, nessun dettaglio di questa narrazione è lasciato al caso. Al di là delle possibili potenzialità, tutte ancora da arricchire, di cui una figura come il commissario Fano si fa contenitore nella prospettiva di un possibile prosieguo del romanzo, la scelta di rimarcare in modo più netto la figura della Salvo rispetto a quella del suo capo riteniamo sia da porre in relazione stretta e diretta proprio al titolo del romanzo che, a nostro avviso, racchiude il vero intento didascalico dell’opera e che, in sintesi, tenta di porre l’accento – come si direbbe da vulgata proverbiale – sul peccato e mai sul peccatore. E in questo senso il mancato coinvolgimento del commissario nelle torbide vicende che alimentano il romanzo (se non come occhio e agente che tenta e aiuta ad unire i segmenti del filo che tutte le tiene insieme e le imbastisce)  rispetto alla sua assistente che invece ne è completamente immersa, rende quel personaggio non inutile certo alle dinamiche degli eventi ma volutamente collocato su un piano di sfondo – per riprendere l’immagine cinematografica dell’inizio – tutto teso ad esaltare il focus su quei protagonisti che di quella didascalia sono inevitabilmente i veicoli di primo piano. Insomma, non sarebbe neppure l’indagine in sé la cosa più interessante di quest’opera!

Senza considerare che il porre l’accento sul delitto e non su Luigi, per dirla con Roberspierre, consente all’autore innanzitutto di evitare di emettere o anche solo far trasparire inopportuni quando non imbarazzanti giudizi morali da perbenisti bacchettoni (cosa che non consentirebbe neppure di uscire dal tragico panorama descritto in quest’opera, come si tenterà di dimostrare alla fine di questa lettura) ma soprattutto gli consente di mantenersi dietro le quinte in modo quanto mai discreto ed efficace: la presenza dell’autore in questo testo non è né invadente né compromettente. Al contrario, bisogna proprio andarlo a cercare fra i dettagli, impegnato com’é a restare “dentro” i suoi personaggi. E l’operazione è straordinariamente efficace giacché consente al lettore di entrare nei fatti ex abrupto e senza nessuno che gli tenga la mano; spinto invece ad un impegno metaletterario incisivo e profondo che lo rende perfino parte della narrazione stessa. Il lettore cioé deve fare un suo percorso. Può scegliere una delle infinite possibilità che questo romanzo consente ma deve fare una scelta di percorso. Ecco perché a proposito di questo romanzo non è sufficiente dire che si legga. Va fatto qualcosa di più!

Fatta questa premessa che spinge prepotentemente già all’interno dei fatti, converrà procedere con ordine secondo quel sentiero alternativo che dimostri come quest’opera può essere letta su vari piani e livelli senza che l’uno tolga qualcosa all’altro ed anzi, al contrario, consentendo un reciproco arricchimento che renda cristallino l’intento letterario e – possiamo dirlo? – umanistico dell’autore. Evitando inopportuni spoiler ma, al contrario, sperando di disseminare stimoli alla lettura che questo testo merita tutti.

«Non ho Per Luigi non odio né amore. Odio solo i suoi delitti» è la frase di Maximilien de Robespierre del 3 dicembre 1792 pronunciata nel discorso in occasione della condanna a morte di Luigi Capeto. E cos’é se non la sintesi del già citato proverbiale “peccato e non il peccatore”? Che è titolo del romanzo ma anche epigrafe dello stesso quasi a voler rimarcare con forza l’impronta che l’autore ha voluto dare al testo. Ferma restando la massima libertà da parte del lettore di scegliere secondo quale sentiero affrontare questo percorso. E proviamoci dunque.
Lo vogliamo chiamare thriller? Dramma psicologico? Giallo? Noir? La ricchezza delle sfumature di questa storia non consente un perfetto incasellamento in uno dei generi codificati dall’attuale mercato editoriale. E questo è senza dubbio un pregio! Qualunque cosa sia (e bisognerà piuttosto guardare alla storia della letteratura “alta” per rintracciare modelli e ispirazioni dell’opera), questo romanzo è bello. Certo “bello” non è esattamente una categoria interpretativa della critica letteraria ma se riesce, come riesce, a catapultare prepotentemente il lettore dentro i fatti narrati, è evidente che è meritevole di un giudizio positivo che è e dev’essere del tutto letterario. Compie la sua mission e lo fa egregiamente offrendo al lettore la possibilità di essere qualcosa di più che un semplice sfogliatore di pagine.

«La realtà può essere vista da molteplici angolazioni ed è quindi mutevole essa stessa» come sostiene lo stesso autore in sede di presentazione del testo nell’ambito di Libri in Comune e…, (vedi video qui: https://fb.watch/ex4YqYfS82/) e uno dei fili conduttori dell’opera è la necessità indotta nel lettore nel voler sciogliere il mistero della follia di Eleonora, presentata sin dall’inizio sotto questa veste e man mano, tramite un abile utilizzo di analessi, dipinta con sfumature progressive lungo il corso della sua storia. Perché allora Eleonora è impazzita? Cos’ha  a che vedere con l’arrivo di questa nuova figura, quella del giovane Landi, nell’immaginaria città di Candevari?

La narrazione è tutta giocata sull’opposizione fra due istituzioni cittadine, entrambe istituzioni scolastiche: l’Accademia Amaranta e il Principe Amedeo, l’una considerata nobile, aristocratica, selettiva, esclusiva; l’altra una specie di ricovero di seconda classe o giù di lì, più proletaria, per nulla elitaria. Probabilmente specchi (il riflesso è sempre al contrario!) delle figure dei dirigenti delle medesime istituzioni o per lo meno “bisbigli”, suggerimenti, indicazioni dei personaggi di punta delle stesse; forse anche didascaliche perfino rispetto all’utenza dell’una e dell’altra scuola.

Se si prova a dare un senso alla scelta dei nomi che l’autore dà alle due scuole, si comincia a comprendere come semi sparsi lungo tutta l’opera offrono quasi costantemente possibilità interpretative e chiavi di lettura per nulla marginali o secondarie.
A guardare la figura storica del principe Amedeo di Savoia, pare fosse un informale: pretese dai suoi amici di essere chiamato per nome, contro il protocollo vigente. Suo padre, Emanuele Filiberto, non volle per lui alcun privilegio e, quando si arruolò a 16 anni, fu subito sbattuto in prima linea. Pare fosse anche un personaggio particolarmente esuberante: una sua battuta evidentemente non proprio bisbigliata e non gradita all’indirizzo dei regnanti, gli costò una missione in Congo Belga che di fatto fu una specie di esilio temporaneo o comunque una punizione. Infine nel 1923 si laureò con una tesi in Diritto Coloniale affrontando la questione da un punto di vista morale: «L’imposizione di uno stato straniero sugli indigeni si giustifica solo col miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni colonizzate».

Si guardi invece alla scelta del nome Amaranta. Intanto è il femminile di un colore, amaranto, che nella sua collocazione nel mezzo delle tonalità di scarlatto e cremisi, è esattamente il colore del sangue. Non quel rosso che siamo abituati a immaginare quando pensiamo al sangue ma il colore vero che vien fuori quando per esempio, mescolando una provetta di analisi, parti di esso si sedimentano sulle pareti. Forse solo un dettaglio! E allora guardiamo all’etimo; è greco: «che non appassisce, durevole, immortale. A considerare quanto accade all’interno dell’Accademia sarebbe lecito pensare ad una sfumatura tutt’altro che positiva se per durevole e immortale si facesse riferimento allo spettro delle pochezze umane!
Tuttavia più calzante sembrerebbe un riferimento all’Arcadia di Sannazzaro, «tra le belle, bellissima», archetipo letterario della donna angelica, bellissima, tutta dettagliate descrizioni estetiche ma quasi talmente “divina” da mancare di contenuto umano. Riveniente da una antica tradizione che parte da Claudiano e passando attraverso Dante e Petrarca restituisce una figura femminile, amata, lodata ma in un contesto di quasi assoluta apparenza; quasi senza parola. Così, riportando questa descrizione con un più audace riferimento all’istituzione scolastica, colora quest’ultima di sfumature utili a comprenderne il ruolo nel gioco finale degli eventi.
Infine Amaranta è anche la sorella malevola e invidiosa di Rebeca alla quale augura ogni male nel romanzo di Marquez Cent’anni di solitudine, guardacaso anch’esso ambientato in una città del tutto immaginaria. Macondo.

Certo, è audace il percorso che si è deciso di intraprendere ma se è vero, com’è vero che il lettore deve prendere parte attiva alla comprensione finale di questo testo, il suggerimento alle possibili attività da intraprendere lo offre nientemeno che Umberto Eco. E, ferma restando la scelta del percorso, la meta dovrebbe portare al medesimo risultato o a una parte, una sfumatura, un arricchimento di esso.
Eco, nel suo testo Sei passeggiate nei boschi narrativi (RCS, Milano 1994) sostiene: «Un bosco è, per usare una metafora di Borges (…), un giardino dai sentieri che si biforcano. Anche quando in un bosco non ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero e così via, facendo una scelta ad ogni albero che si incontra, In un testo narrativo il lettore è costretto a ogni momento a compiere una scelta. Anzi, quest’obbligo della scelta si manifesta perfino a livello di quasi enunciato, almeno a ogni occorrenza di un verbo transitivo. Mentre il parlante si accinge a terminare la frase noi, sia pure inconsciamente, facciamo una scommessa, anticipiamo la sua scelta, o ci chiediamo angosciati quale scelta farà (almeno in casi di enunciati drammatici come “ieri notte nel cimitero ho visto…”).

Tanto per dirne una: si è insistito sull’impostazione cinematografica secondo la quale questo romanzo è strutturato. Non sarà un caso che all’interno del testo sono citati più volte nomi di attori, film e registi da Pupi Avati a Nanni Moretti, da Psyco a Judy Garland. Così come, il passaggio dell'”occhio della camera” attraverso le varie scene lungo tutto il romanzo, viene spesso ripetuto e riprodotto “in piccolo” all’intero di una stessa scena. È il caso, per esempio, del dialogo fra Andrea Cardano e il commissario Fano (p.57): qui ritroviamo quel “metadialogo” che consente di riferire in un discorso diretto dei personaggi un altro discorso diretto riportato dagli stessi, in questo caso quello fra Landi e “la pazza” della biblioteca ma in questo caso è possibile riscontrare un ulteriore dettaglio strutturale nell’ impostazione: qui il dialogo è continuamente interrotto da incursioni di altra natura. La penna d’oro, i pantaloni, la relazione con Eleonora. Eppure dettagli mai inutili e tutti funzionali al testo. Accade cioè “in piccolo” ciò che l’autore sta strutturando “in grande” fra le scene dove la discontinuità della narrazione diventa dettaglio arricchente e crea una certa suspence utile a catturare e mantenere il lettore all’interno di quel sentiero.

Il modus di raccontare di Palumbo, oltre che evidentemente influenzato da un’impostazione classica che inevitabilmente porta ad inquadrare nelle vicende la presenza e l’influenza di un fato classicamente e tragicamente inteso, consente d’altro canto all’autore di specificare su un piano diverso quegli elementi che non permetterebbero più di guardare al “peccato” (ed è ormai chiaro quali diversi ambiti questa parola abbracci oltre al senso squisitamente confessionale o fideistico) come qualcosa di estraneo al suo corredo di responsabilità individuali: insomma, la banalità del male, pur “dipinta” a tinte scure ma contrastanti in questo romanzo, non è più giustificata in alcun modo sebbene la presenza di una forza superiore tipica, per esempio, della tragedia greca, sembra guidi certi personaggi verso la rovina, quasi nonostante se stessi: esemplare in questo senso è la figura di Eleonora la cui costruzione nella percezione del lettore va minuziosamente messa insieme pezzo per pezzo fino a costruirne una figura imponente che sintetizza in sé la consunzione dell’apparato etico che alla fin fine appartiene a ciascuno dei personaggi dell’intera opera.

Tutto questo apparato deve necessariamente sostenersi su fondamenta ben solide per evitare di traballare e apparire debole e qui quelle fondamenta sono innanzitutto linguistiche. Palumbo dimostra in questo senso un’abilità straordinaria nella capacità di ricorrere a registri vari e molto diversi fra loro adattandoli al meglio a ciascuna diversa circostanza nella quale prendono corpo. Non si tratta solo di variazioni tonali e morfologiche da personaggio a personaggio ma anche e soprattutto di abili adattamenti del linguaggio ai vari registri richiesti dalla circostanza. Non stupirà affatto quindi (o forse stupirà ma in senso positivo) se, all’alternarsi di scene diverse in tempi diversi, corrisponda di volta in volta un diverso registro linguistico a seconda di chi sia l’io narrante: che si tratti dell’allievo particolarmente esuberante del Principe Amedeo o dell’austero docente impostato o della pettegola del paese o della donna matura innamorata. Dove necessario il testo va anche oltre il linguaggio utilizzando l’espediente dell’annullamento della punteggiatura per accelerare il ritmo della narrazione (p.109). Si può così godere del passaggio da un linguaggio tenero e delicato, nella scena del primo bacio fra Eleonora e Matteo, a un linguaggio ironico e sarcastico nella lettera dell’archivista primo Ernesto Terzi al secondo Pasquale Lamola descrivendo il colpo basso di Arturo Molteni a Verdi. Solo per citare due esempi.
E Palumbo dimostra anche una disinvolta capacità di lasciare spazio alla quanto mai opportuna parolaccia se a pronunciarla è il personaggio giusto. Il linguaggio scurrile ha senso in questo contesto quanto più, dall’altra parte, auliche sono le citazioni. E così nel dialogo fra il decano Sauro e l’allievo Giulio Ancona spunta nientemeno che la citazione di Roberspierre, che dà il titolo al romanzo, questa volta non pronunciata dal prof. Molteni, come ci si aspetterebbe da un fanatico del rivoluzionario francese, ma dall’allievo che poco dopo, nel dialogo immediatamente successivo con l’amico Andrea, dà vita ad un’intera pagina di esternazioni colorite (è decisamente un eufemismo!) che più non è che il registro più adatto a una “normale” conversazione fra giovani maschi particolarmente “su di giri” (pp. 117-119).

Non ultimo l’utilizzo del linguaggio dialettale, particolarmente efficace in determinati contesti più “popolari” fino all’estrema sintesi degli idiomi stranieri a perfetta identificazione di un contesto e di un tipo sociale più che contemporaneo, sebbene il romanzo sia ambientato nel 1978.

Proseguendo sulla scia onomastica poco sopra intrapresa, ci ha particolarmente incuriosito la creatività dei nomi scelti per i personaggi, tutti casuali, certo, ma sceltone uno si resta sorpresi dalle sfumature che possono mettere in campo. Fiorella Giudici, per esempio: la giovane che nel romanzo subisce violenza carnale da parte del branco. Una curiosa indagine ci fornisce un altrettanto curioso risultato: proprio nel 1978 per la prima volta in Italia viene mandato in onda in Rai, in una sorta di antesignano di quella che poi sarà la nota trasmissione televisiva  Un giorno in Pretura, il primo processo per stupro contro una ragazza. «Quarant’anni fa la Rai raccontò la storia di Fiorella, abusata da 4 uomini. L’avvocata Lagostena Bassi tuonò: «non vi chiediamo una condanna esemplare, non c’interessa. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa».
(https://www.ildubbio.news/2019/04/30/violentata-e-offesa-poi-quel-processo-in-tv-cambio-gli-italiani/).
Una dichiarazione che casualmente ricorda così da vicino il titolo di questo romanzo e della citazione che sintetizza. Così come altrettanto curiosa la coincidenza del nome della ragazza con la Fiorella che nel romanzo subisce lo stesso trattamento. Eppure non è tutto qui. La stessa vicenda viene ripresa qualche anno dopo da Paola di Nicola nel suo libro La giudice, (https://timeforequality.org/dossier-la-giudice/scheda-tematica-processo-per-stupro/) il cui titolo, un po’ audacemente, lo ammettiamo, ci ha però chiaramente ricordato il cognome della Fiorella Giudice descritta come vittima di stupro in questo romanzo.

Ma torniamo a più sobrie osservazioni.
Protagonista assoluto del romanzo è a nostro parere proprio il prof, Arturo Molteni con la sua particolare devozione per la figura di Roberspierre. La cui citazione, nella luminosità della sua giustezza morale, vorrebbe porsi come il biglietto da visita di un personaggio tutt’altro che moralmente ineccepibile. Arturo Molteni è un gigante di errori perpetrati lungo tutta la narrazione (e suggeriti o intravisti lungo tutta una vita, come si scoprirà solo alla fine del romanzo) al quale la citazione che dà il titolo al romanzo fa da controcanto e nel contempo da alibi. Curioso che le uniche due volta in cui nel romanzo la citazione compare in maniera esplicita sia sempre per coprire qualche malefatta appena compiuta e negata o occultata.

Questo gusto della citazione lo si ritrova anche su un piano metaletterario che ci piace pensare essere l’unico elemento che tradisce una presenza più evidente dell’autore nel romanzo. Chi conosce Gianni Palumbo sa bene che le citazioni artistiche (per esempio a proposito dei quadri in casa della zia di Landi), quelle musicali (il violino che suona il Flauto magico o Bach in chiosa), quelle letterarie (il «Rideli addosso tutta la foresta» di Poliziano o perfino Shakesperare la cui rosa del Romeo e Giuletta diventa un girasole) sono autentiche espressioni delle passioni personali di un fine e coinvolto critico d’arte, di un amante devoto della musica classica e di un colto e ispirato professore universitario. Stupisce un po’ di più (forse per la particolare avversione di chi scrive alla matematica) la citazione del teorema di Talete a pag. 74 ma tant’è. Siamo in ambito accademico e in questo senso tutto vale!
Piace però soffermarsi su un passaggio affascinate e utile rispetto a quanto appena detto. Riportiamo di seguito uno stralcio da pag. 58:

Landi allora s’inginocchiò accanto a lei e, istintivamente, abbassò la voce e le parlò con delicatezza. “Qual è il tuo nome?”.    

“Che importanza ha? Non è nulla, un nome. È, anzi, un impaccio, la preclusione di un infinito di possibilità da trasformare in atto. Se tu chiamassi il girasole “carpa” o “fegato”, forse sarebbe meno colorato? Darebbe meno luce?”

“Eppure è il nome stesso, “girasole”, a racchiudere in sé un’idea di luminosità”.

Davvero c’é bisogno di esplicitare la matrice letteraria dietro questo splendido passaggio?  A intuirlo e comprenderlo, così com’è strutturato e contestualizzato nella scena nella quale prende corpo, diventa forse più chiaro come l’autore giochi con la storia, con il testo e il metatesto e con l’intento didascalico offerto al lettore. Così come si chiariscono man mano i diversi livelli entro i quali ciascun sentiero narrativo si fa strada, fino a qualificare lo stesso lettore che sceglie di intraprenderne uno a seconda di ciò che lo spinge a percorrerlo.

Si è detto che il romanzo è ambientato nel 1978. Così come per le citazioni artistiche, musicali e letterarie, l’impronta inconfondibile dell’autore affida a un impianto puntuale ed erudito la tessitura di fondamentali ed essenziali riferimenti storici e geografici attraverso i quali si snoda e si sviluppa il fatto letterario. Da più parti si è sottolineato come questo per l’Italia sia stato un anno particolarmente carico di avvenimenti importanti. Lo è certo per l’autore dal momento che si tratta del suo anno di nascita ma lo è pure per il paese: «Il 16 marzo 1978 – come precisa Mimmo Amato nella sua recensione al testo (leggilo qui) – gli uomini della scorta di Moro vengono uccisi da un comando delle Brigate Rosse all’incrocio tra via Fani e via Stresa. A Roma, il 15 giugno 1978 il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, si dimette a seguito delle polemiche innescate da voci su presunte irregolarità sue e dei suoi familiari: viene eletto il successore, il 9 luglio, Sandro Pertini, avvocato di Savona, socialista, icona dell’antifascismo, incarcerato e poi esule in Francia, combattente partigiano e infine presidente della Camera. Il 25 luglio 1978 nasce Louise Brown, il primo neonato concepito attraverso la fecondazione artificiale (…) e questi sono solo i più salienti e significativi». Ci piace intravedere – a proposito di varietà di registri – uno squisito accenno umoristico nel fatto che l’autore metta in bocca ad uno dei suoi personaggi l’esternazione «Ci manca solo che muoia il Papa!». È il 1978: di papi ne moriranno due! «Il 6 agosto muore Papa Paolo VI e gli succede, per un mese, Papa Luciani. Il 16 ottobre viene eletto Papa, Karol Wojtyla» (M. Amato). Ma del 1978 le vicende narrate nel romanzo abbracciano solo cinque mesi coincidenti o per lo meno includenti il periodo quaresimale di quell’anno. E quaresima, nell’ottica cristiana, è espiazione delle colpe.
Tornando all’audace itinerario intrapreso alla sequela di una libera e personale interpretazione dei suggerimenti di Eco, viene da chiedersi perché, come si è detto all’inizio, solo con il settimo capitolo entra in scena la terza persona assoluta, l’io narrante non corrispondente ad alcuno dei personaggi della trama a cui fino ad allora era sempre stata affidata la narrazione.
Sarà un caso ma inevitabilmente il numero 7 associato al periodo quaresimale richiama alla mente i 7 peccati capitali. E sarà un caso che, nel percorrere la trama e i diversi personaggi del romanzo, di peccati non se ne lesinino di certo: lo spettro è quasi tutto confermato. Nessuno dei personaggi di questo romanzo può dirsi indiscutibilmente positivo. Nessuno è immune al variegato spettro delle pochezze umane e del peccato (eccolo che ritorna il peccato, questa volta profondamente caratterizzato): dal quasi innocente pettegolezzo all’omicidio premeditato; dall’amore proibito (o percepito come tale in un contesto di morale comune del tempo), che si tratti di amore omosessuale o di amore fra due persone con forte differenza di età, alla relazione discutibile fra un allievo e un insegnante o perfino fra un adulta poliziotta e un minore; dal suicidio all’incesto e ci fermiamo qui per non rivelare oltre. Quelle pochezze umane che sembrano prendere il sopravvento (o sembrano aver già preso il sopravvento: il gap temporale riannodato attraverso l’uso costante di feedback, conferisce maggiore fascino all’intero impianto narrativo) su tutto il resto fino a collocarsi in cima alla scala delle priorità; siano esse la carriera e il prestigio a tutti i costi, la necessità di occultare paternità o maternità indesiderate o perfino la volontà o la scelta dell’omicidio o del suicidio. Tutti, alla fine del loro percorso, sembrano venir meno a ciò per cui più si affannano nel romanzo: il ribaltamento delle prospettive è il vero capitolo “letterario” finale di quest’opera. Tutti affogano nel fiume che taglia le due rive delle proprie ambizioni da un lato e dei propri limiti dall’altro. E tutti ne vengono fuori inesorabilmente fallaci e falliti. E non è certo un fiume navigabile!

Gianni Antonio Palumbo

Dunque, si diceva: la quaresima. L’espiazione delle colpe.
Un altro elemento che incuriosisce in modo particolare, se osservato secondo quell’ottica didascalica di cui si è detto sopra, è il fatto che l’unica chiesa presente e citata nel romanzo non sia intitolata a un santo più o meno tradizionale, soprattutto per un paese del sud Italia, sebbene immaginario: che so io, san Giovanni, San Pasquale, Maria Santissima delle Rocce… È invece intitolata nientemeno che a Maria Maddalena, figura quantomeno discussa anche nell’ambito della tradizione cristiana più radicale: la peccatrice di professione. Ma anche la protagonista del noto «Chi è senza peccato scagli la prima pietra»! Comincia così a farsi strada la possibilità di considerare una nuova chiave di lettura che avendoci condotto lungo tutto il romanzo attraverso segni, simboli e suggerimenti sparsi qua e là, finisce per dare spessore al definitivo annientamento dell’ipotesi di un giudizio morale sugli stessi personaggi. Come per la frase dell’avvocata Bassi, cos’è questo velato richiamo al “Chi è senza peccato” se non un’altra variazione sul tema di “Non ho per Luigi né odio né amore”? Comincia a prendere corpo, sul finire del romanzo, il disegno di una ambivalenza, di un’altra biforcazione – per dirla con Eco – che si era già intravista nella dicotomia strutturata fra l’ambizione e il limite, fra l’epica ascesa e la rovinosa caduta, diremmo fra il voler apparire e il non riuscire ad essere. E che appartiene a ciascuno dei personaggi, nessuno escluso. In un gioco in cui le parole essere umano sembrano sottostare alla circostanza per la quale si utilizzano: nobile o ignobile; come alibi sminuente se le si intendono nel senso più popolare del “in fondo siamo solo esseri umani” o come altissima aspirazione e dichiarazione di dignità se intese nel senso che in quanto esseri umani si è al di sopra di qualunque altro essere animale sulla terra. Una umanità profonda quanto i suoi stessi limiti. Una “biforcazione” che, portata alle estreme conseguenze, finisce per tradursi nella dicotomia Amore e Morte.

Già, perché noi non crediamo affatto all’idea della Resurrezione. Cerchiamo di allontanare il più possibile il pensiero della Morte, perché nel profondo siamo convinti che sia un’esperienza di totale e definitivo annientamento. Eppure la Morte incombe; anzi, come diceva Seneca nelle epistole a Lucillo, sperimentiamo ogni giorno l’esperienza della Morte. Ogni istante trascorso appartiene al cerchio scuro della Morte.

E Maria Maddalena è anche la prima a vedere e riconoscere il Cristo dopo la sua Resurrezione.

C’è dunque, all’interno di un panorama dipinto a tinte così fosche, una via d’uscita? Redenzione quindi o dannazione eterna? È la lecita domanda che spinge a trovare lo sbocco e il senso di quest’opera che – lo ripetiamo – ha proprio nel titolo racchiusa la sua sintesi migliore e perfino il suo più auspicabile esito.

Quel corpo riverso sulle basole non mi sembra poter tornare a vivere. […] Don Alceste continuava a mormorare che il luogo è stato sconsacrato. A me viene piuttosto da pensare che, mentre eravamo in fila per prenderci da bravi cristiani la nostra brava comunione, Enrico si è ammazzato. Siamo stati delle iene, con lui. L’eucarestia per noi dovrebbe trasformarsi in veleno, altro che corpo e sangue del Cristo.

Come si diceva all’inizio di questa lettura, un giudizio che non sia letterario non è definibile né accettabile su piani diversi perché è lasciata al lettore la libertà di esprimerne a seconda delle scelte che egli stesso compie nel percorso che affronta leggendo il testo. E il lettore a quel punto non fa altro che quella scelta che, magicamente e vicendevolmente, è lasciata anche ai personaggi del racconto.

Fra la volontà di apparire e l’incapacità di essere si apre una radura non abitabile che porta il nome di ipocrisia. Dall’ultimo stralcio del testo appena riportato, è proprio il confronto con la realtà a lasciare la possibilità di un accenno di scelta umana; quel corredo di responsabilità individuali di cui si diceva inizialmente; il libero arbitrio, se si preferisce. Che non può prevedere un giudizio né morale né di altra natura (a parte quello letterario sull’opera e in questo caso non può essere che straordinario) ma presuppone la conoscenza del bene e del male e il riconoscimento del peccato… o del delitto, se pare suonare meglio. Proprio per questo, nessuna via d’uscita sarebbe possibile senza la convinzione che «Non ho per Luigi né odio né amore. Odio solo i suoi delitti»!

 

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