Sulla poesia di Vito Davoli

di Beppe Costa

 

Avevo già scritto poche ma sentite righe sulla Poesia di Vito Davoli, scorrendo fra i due libri avuti e piuttosto fra alcune che apparivano nel suo profilo in rete, come  “Chiedo scusa” e “Vlora”.

Come ho spesso dichiarato non sono un critico, specie nel campo della martoriata poesia e dei poeti. Si tratta spesso di poeti e scrittori falliti che senza ritegno usano la rete per abbindolare chi ancora ignaro si avvicina al mondo arido e corrotto da presunti editori e/o letterati, una selva indegna dov’è difficile salvarsi. Ci sono alcuni che copiano note critiche di saggisti tedeschi riportandoli pari pari come introduzione a libri di ignari autori.

Inversamente  ci sono alcuni, come Vito, che la poesia la vivono molto seriamente come una sorta di vita parallela, come rifugio e rivoluzione.

In questi giorni con la pubblicazione di   , autori di grande autorevolezza hanno scritto sul volume e quindi non aggiungo che poche ma importanti righe e che riguardano la grande generosità (merce rarissima sostituita da gelosie e invidie) del Nostro nel diffondere letteratura a piene mani, attraverso blog, siti, riviste.

Scorrono fra le vene e la carne appunto le “Contraddizioni” fra l’impegno nei confronti di questa bistrattata nostra cultura e l’ambiente che la circonda rendendola anche vita poco lieta, troppo spesso feroce. Qui una sorta di illuminazione dopo tanta ricerca: Lui che la poesia vive, non solo la scrive, diventa così un sogno (tutto mio) che prosegue. Affidando tutto me stesso dalle carte, ai progetti, segnalando così a quei pochi e rari amici che ancora mi supportano. Sperando altresì d’avere ancora un po’ di tempo affinché il pensato si realizzi in pieno. Non posso che augurargli di “resistere” all’impegno non certo lieve di quanto dovrà sostenere.

Infine fortemente ci lega la musica. Chissà se come sta accadendo a me riprende la chitarra e ricomincia a suonare: a differenza della parola comprensibile e universale!

Nel mistero di questa enorme confusione che gira intorno alla poesia, c’è sempre una voce, una intensità diversa che continua ad affascinare. Se da una parte leggiamo di diari personali che più hanno a che fare con la prosa, dall’altro ci sono alcuni che mostrano chiaramente i segni d’una forte passione che travolge e incombe sulla vita, talmente forte da entrare con forza nelle vite altrui.

Spesso accade a chi si forma, si misura e confronta con i molti autori che ci hanno preceduti, sentendosi perlopiù sperduto e inadeguato. Così soltanto può dirsi poesia quel guardare vedendo oltre, avendo  una visione del dramma che affligge – da sempre – l’intera umanità, visto da pochi meno distratti da fuochi d’artificio e abbellimenti che costantemente cercano di coprirlo.

È questo il compito del poeta? Forse sì o, almeno, così pensano in molti ma, in realtà è il dramma di chi scrive poesie non per casualità. L’osservare senza poter far nulla per modificare ciò che vorrebbe, ritenuto, per lui almeno, ingiusto. Mentre vive una vita in apparenza normale, il tumulto interiore tenta di trasformarsi in parole scritte, unica possibile arma posseduta o, almeno legalmente consentita. Vito Davoli in questo riesce senza dubbio ma, forse, come alcuni dicono, è una magra consolazione frapponendosi a una vita sicuramente un po’ più felice.

Di seguito alcune poesie tratte da Carne e sangue (Tabula Fati, 2022).

 

Mors tua

Ermetico stanotte veglierò per aspettarti
da qualunque spiffero tu scelga di arrivare,
ovunque tu decida di fermarti
stanotte veglierò
perché verrai, lo so,
a planare sulla mappa scura delle mie lenzuola
e aleggiando per sbaglio verserai
gocce d’inchiostro su qualche riga tutt’acqua e sapone.


Ti aspetterò per questo.
Stanotte veglierò
per sudare respirandoti nei fumi del Favonio
quando sentendo scorrerti col sangue
mi immobilizzerai
senza impugnare la lucerna del padrone.
Tu tratterrai il tintinnio di chiavi
che non ti serviranno
per non svegliare chi non dormirà
perché io ti aspetterò
rubando uno alla volta petali gravidi di cielo
da una persiana ansiosa
perché da lì verrai, lo so
ed io stanotte veglierò
e per tutte le notti fino a quando
tu non decida davvero di arrivare
almeno fino a che io ci sarò.

Brindisi
Noi, palchi di bianchi nembi teatranti,
di un apatico pubblico
purpurei drappi di solenni scene,
dialoghi di commedie solitarie,
voci
di un arcano canto senza note
che fa danzare i tronchi
e muove l’onda, la pelle d’oca ai campi,
fili d’erba
fra i denti della terra
che anela al pianto delle divinità,
brindammo

e i calici battemmo dell’amore
ignari o dimentichi
comunque noi,
rinati dai frammenti di una foglia scricchiolante
che disegnano l’alito di chi ci benedisse.

Benedetti noi
sui quali andando un giorno
il sole del meriggio
spiegherà le tende.
Altri la chiameranno eternità.

Rosso
Le case, rosse, bruciano confuse
sotto quest’ora crepitante
che ridà sangue ai muri.
Io non distinguo il mare del mattino
se il sole lo tiene con un braccio
pronto a rifarsi il trucco
né il cielo malinconico sopra il mio Sud
se piano l’abbandona.

Chissà perché i poeti amano il tramonto!
Forse per me è il belletto
prima della prima,
attesa
speranza sanguigna
che lo spettacolo abbia inizio
o forse solo del giorno dopo
del giorno nuovo.

 

(In copertina: Beppe Costa)

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