Quattro spezzoni di cinema neorealista

in Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo

di Italo Spada

 

La più bella stagione del cinema italiano inizia alla fine della seconda guerra mondiale, quando alcuni tra i nostri migliori registi socialmente e culturalmente impegnati – Rossellini, Visconti e De Sica su tutti – a corto di mezzi tecnici e non potendo contare sulla disponibilità degli studi di Cinecittà  semidistrutti dai bombardamenti, decisero di ambientare le loro storie in mezzo alle macerie delle strade, utilizzando attori non professionisti e  dando vita a quella corrente che prese il nome di “Neorealismo italiano”.

Se si dovesse scegliere un film e una sequenza simbolo di tutto il cinema neorealista probabilmente ci si indirizzerebbe su Roma città aperta di Roberto Rossellini e sulla famosa scena del rastrellamento tedesco, quando Anna Magnani, nei panni della popolana Pina, corre dietro il suo uomo caricato dai nazisti su un camion per essere deportato in un campo di concentramento.  Al grido della donna che urla  “Francesco! Francesco!”, fanno eco in rapida successione una raffica di mitra e il grido del figlioletto vestito da chierichetto che sferra calci ad un soldato tedesco,  sfugge al controllo del parroco e si precipita disperatamente sul corpo della mamma.

Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo è un contenitore di “spezzoni”  di cinema neorealista. Il poeta, come il piccolo Salvatore di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, ricompone sequenze drammatiche tratte da Paisà[1], Germania anno zero[2], Roma città aperta[3], La ciociara[4], ecc. in un unico straziante interrogativo: E come potevamo noi cantare?

Il primo spezzone è una ripresa dal basso. Vengono inquadrati, in particolare, gli scarponi chiodati dei soldati stranieri che marciano con perfetta sincronia. Il rumore martellante  rimbomba sinistro per le strade deserte e si amplia nella piazza vuota, là dov’è il cuore della città.

Stacco. La lenta panoramica del secondo spezzone scopre cadaveri abbandonati sui prati. La gelida atmosfera dell’ inverno ha avvolto piante e fiori, cose e uomini; gli alberi sono scheletri e sul prato, al posto dell’erba, ci sono chiodi di ghiaccio.

Il pianto sommesso di un bambino che si sente fuori campo fa da colonna sonora al terzo spezzone. Sembra il belato di un agnellino, insistente, monotono. Altri pianti di altri bimbi si rincorrono da una casa all’altra e l’eco diventa un coro sommesso di tenero gregge allo sbando. Improvvisamente, un urlo di belva ferita squarcia l’aria. E’ quello di una donna che corre impazzita – con il velo nero che le vola via lasciandole scoperti i lunghi capelli scompigliati – verso una meta maledetta, un moderno calvario. Non è Maria di Nazareth, perché non ha fede e impreca contro gli assassini di suo figlio, ma è pur sempre una “mater dolorosa” che vuole morire ai piedi di una croce.

In dissolvenza incrociata, un salice piangente prende il posto del palo del telegrafo. Il quarto spezzone è una zoomata a scoprire: dal salice al campo lungo di una città morta, con il vento che trascina nell’aria i lamenti dei bambini e le urla della donna.

 

Alle fronde dei salici

 

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

 
 

 

ripresa dal basso: particolare

panoramica

effetto sonoro fuori campo

 

carrellata a precedere

 

dissolvenza incrociata

zoomata a scoprire

effetto vento
 

[1] Regia di Roberto Rossellini, Italia 1946, b/n. 125’

[2] Regia di Roberto Rossellini, Italia 1948, b/n. 75’

[3] Regia di Roberto Rossellini, Italia 1945, b/n. 98’ (con Anna Magnani e Aldo Fabrizi)

[4] Regia di Vittorio De Sica, Italia 1960, b/n. 110’ (con Sophia Loren, Raf Vallone, Jean-Paul Belmondo)

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