H. C. Andersen. Il primo fiabista d’autore
di Cosimo Rodia
Hans Christian Andersen ha scritto 156 fiabe; nasce ad Odense in Danimarca, nel 1805, in una famiglia povera; rimane orfano di padre da bambino e cresce con una madre alcolizzata, una sorella meretrice, una nonna spigolosa.
Non è escluso che l’infanzia così segnata lo immalinconisca nel carattere e lo renda di umore mutevole. Da ragazzo legge Shakespeare e rimane folgorato dal teatro, tanto che ambisce a diventare attore. Dopo una triste preadolescenza, a 14 anni Hans parte per Copenaghen in cerca di fortuna; probabilmente sente il peso di riscattare un’esistenza di stenti e offrire prospettive di riscatto anche alle donne della sua famiglia. Il cruccio di Hans è diventare famoso. Ma l’audizione al teatro Reale dell’Opera è negativa; ciò nonostante una serie di circostanze gli cambiano la vita.
Nella capitale conosce, tra le altre, la famiglia Collin, che riconosce nel giovane Hans del talento, tanto che gli fa ottenere una borsa di studio per l’esame di maturità, che la raggiunge nel 1828. Jonas Collin comprende che Hans ha la stoffa dello scrittore, dunque gli procura il denaro per un viaggio di formazione in Europa. Da questo momento in poi, Hans inizia la sua carriera tra delusioni e successi. Si cimenta nel teatro, nella poesia, nel romanzo, ma è con la fiaba che trova i riconoscimenti che inseguiva, quando nel 1835 sono pubblicati i suoi primi racconti fantastici.
La fonte della sua iniziale ispirazione è l’infanzia; riscrive, infatti, le fiabe che aveva ascoltato da bambino e che facevano la sua gioia; è il caso de L’acciarino, La principessa sul pisello, Il guardiano dei porci. La fiaba popolare gli fa prendere padronanza del genere.
Nel 1836 pubblica un secondo libro di fiabe, ideate di sana pianta, e da quel momento parte un periodo di dieci anni con composizioni originali, la cui diffusione, prima nel suo paese, poi all’estero, gli garantisce il successo tanto cercato.
Una grande caratteristica delle fiabe di Andersen è l’ampia articolazione, come fossero matriosche o tessute da un filo lungo di un gomitolo nascosto. Ogni fiaba è una grande costruzione fantastica, direi, un esempio di come si costruisce un testo narrativo; esemplare, nella fattispecie, è Il soldatino di stagno. Il soldatino cade dal davanzale, è trovato da un bambino, è messo su una barchetta di carta, finisce in un canale, poi venduto, per ritornare nella stessa casa da dove era caduto. Una lunga peripezia con un ritorno a sorpresa, infine l’innamoramento e la metamorfosi simbolica[1]. O come anche Il collo della bottiglia. La bottiglia è testimone di un matrimonio; viene buttata; recuperata, è nuovamente utilizzata e imbarcata; la nave affonda; ritrovata, diventa la bottiglia con messaggio di un giovane sposo per la sua sposa; finisce di girovagare e diventa contenitore di semi; quindi è caricata su una mongolfiera, che precipita; la bottiglia si rompe e diventa abbeveratoio d’uccelli…
Sono fiabe rutilanti, con una successione senza posa di fatti vorticosi: a un certo punto del racconto, la narrazione potrebbe concludersi, ma l’autore continua, mostrando, a ben guardare, come un racconto si sviluppa, si allunga, si articola, grazie a piccoli grimaldelli narrativi, fatti di incastri, sovrapposizioni, aggiunte.
Lo stesso anche in L’abete, in cui un piccolo albero vuol crescere; diventa grande; è segato per essere addobbato come albero di Natale; è conservato in soffitta, infine è bruciato. Sono esempi che delineano e sostanziano per la prima volta l’articolazione della fiaba d’autore (ovvero, quella nata esclusivamente dalla fantasia dell’autore, senza che derivi dalla tradizione orale), del procedere per astrazione; direi che dà idea anche, ad una lettura più attenta, della struttura del racconto, di un possibile lavoro di smontaggio e ricostruzione, la cui conoscenza è certamente propedeutica anche a coltivare la lettura.
Caratteristica di Andersen, che verrà ripresa dalla scuola disneyana, è l’animazione degli oggetti, come ad esempio ne I fiori della piccola Ida, che è anche l’animazione di un sogno. Ida vede e sente i fiori ballare. Inoltre, sogna anche che i fiori dopo il ballo vogliono essere seppelliti in giardino per rinascere in primavera. Com’anche Nella stanza dei bambini, in cui Andersen dimostra d’essere un maestro nell’animare gli oggetti. O come, ancora, in Il vecchio lampione, in cui anima un vecchio fanale pubblico a olio prossimo ad essere sostituito. Il lampione immagina di diventare un candeliere di un poeta ma alla fine accetta la sorte con serenità.
C’è evidentemente l’antromorfizzazione degli oggetti, che si prestano ad essere allegorizzati, rappresentando la vita umana, con la trasposizione degli affetti, dei sentimenti, della morale.
In Andersen troviamo un’altra variabile tipicamente fiabesca e che avrà molto seguito, ed è la narrazione dal punto di vista dell’infinitamente piccolo. È il caso di Pollicina: «Era alta forse appena mezzo pollice e per ciò le misero nome Pollicina. Un bel guscio di noce ben lucidato le serviva di culla». È una narrazione con un diverso punto di vista, direi dal basso verso l’alto, e utilizzando vari stratagemmi narrativi, si condannano le convenzioni per esaltare l’amore. Meccanismo che si ripresenta in L’ago, allorché nella finzione narrativa il piccolo strumento diventa una telecamera subacquea quando finisce in acqua.
Aspetti funzionali che servono a creare storie per parlare ai bambini, con dolcezza, con affabulazione incalzante, con un linguaggio parlato, con visioni rassicuranti nonostante la Piccola Fiammiferaia muoia di freddo. Anzi c’è certamente alla base della produzione di Andersen un forte senso della Provvidenza che sottende a tutte le vicende dei personaggi. Le preghiere, il sentimento, il dolore…, sono condizioni per raggiungere il paradiso. A volte la religione è quella tipica del Vecchio Testamento, ovvero, con pene accentuate e truculente prima di giungere alla salvezza, come in Le scarpette rosse, in cui Karen, vanitosa e irriconoscente, è condannata dalla Provvidenza a soffrire (prima a danzare, poi a farsi tagliare le gambe). Solo dopo lunghe sofferenze sarà perdonata e sarà pronta a salire in paradiso. Dio è misericordioso solo con chi si purifica nella pena e nel dolore.
Della morte, poi, si parla con levità e dolcezza come nella già citata La piccola fiammiferaia, ma già in questa fiaba l’atteggiamento cambia e la religione è quella del Nuovo Testamento; è come se le cose eterne siano percepite solo dagli ultimi e in ogni caso si ribadisce che la sofferenza e la povertà sono condizioni per guadagnare il paradiso.
Principi evangelici sono riscontrabili in L’Angelo, una fiaba triste con bambini morti e fiori secchi, ma con una nota di speranza: che una volta trapassati si fa parte della schiera dei beati.
O, ancora, Qualcosa e Un petalo caduto dal cielo, che mostrano come sia sconosciuto all’uomo ciò che viene dal cielo; per fortuna ci sono i cuori umili e casti che rappresentano l’anello di congiunzione tra la terra e l’al di là.
Importante in Andersen è la presenza della “Provvidenza” capace con la sua forza misteriosa di rimettere le cose al proprio posto, di dispensare giustizia e retrocedere i fannulloni vocati all’eccesso, come in Ogni cosa al suo posto, in cui si condanna lo sperpero dei signori e si esalta l’impegno e la laboriosità del calzolaio che compra il castello del signore in rovina e diventa il capostipite di una famiglia ricca.
Nelle fiabe di Andersen non mancano i giochi e paradossi, come in L’ombra, in cui questa diventa protagonista a discapito del vero protagonista.
Preponderante rimane il richiamo alla vita degli umili, con ambientazioni da slums, case povere e alimentazione insufficiente; ciò nonostante è qui che si esaltano i valori dell’altruismo come in Il piccolo Tuk. Nella povertà si manifesta il principio che chi fa del bene raccoglie bene, grazie all’intervento provvidenziale.
Certo la crudezza di talune immagini può risultare troppo forte per i bambini, come in Non era buona a nulla, in cui si legge:
«Il bambino pianse e ben presto rimase solo vicino al ruscello e ai panni bagnati […].
Mara la zoppa corse nel cortile a chiedere aiuto.Il vicesindaco e i suoi ospiti guardarono dalle finestre.– È la lavandaia! – disse, – deve aver bevuto e oltrepassato la soglia della sete; non è buona a nulla! È un peccato per il suo bel bambino. Sento sicuramente affetto per lui. La madre non è buona a nulla!».
Una mamma alcolizzata non è proprio un grande esempio. Ad ogni modo la produzione di Andersen è una grande metafora della vita. Ad esempio in Il lino, la pianta di lino, appunto, proprio come l’uomo, nasce, fiorisce, diventa tela, indumento, che poi è riciclato e infine sdrucito dal sole.
Andersen rimane uno scrittore variegato, con la preponderanza della mansuetudine, che dice i difetti dell’uomo ma che accetta la realtà così com’è, senza il desiderio di cambiarla. Si potrebbe dire che parla ai bambini affinché gli adulti intendano.
Secondo Giancane[2] la scoperta di Andersen è che l’infanzia non ha fine, è sempre in ognuno di noi e bisogna saperla mantenere, senza farsi distrarre dai problemi della vita.
C’è, dunque, un fascio di luce proiettato sulle cose semplici e sulle virtù umane che alimentano un sentimento, in particolare, che è l’amore, immortalato nella grande statua della Sirenetta nella capitale olandese.
[1] Nelle sue storie, Hans trascrive inevitabilmente la sua avventura umana; non è escluso che la ballerina protagonista nel finale della fiaba sia la stessa che rise di lui quando andò a fare l’audizione per diventare attore.
[2] Cfr. D. Giancane, I ragazzi e la lettura, Levante, Bari, p. 202.
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