Morte: Il suo silenzio non ti parla?». E Lagerkvist a sua volta si confida tra un sussurro e un grido: «Io volevo conoscere ma potei solo interrogare, io volevo la luce ma potei solo bruciare. Aspiravo all’immensità e potei solo vivere. Mi rammaricai. Ma nessuno capì cosa intendessi.» In uno dei Quaderni di appunti risalenti agli anni ’40 del Novecento Lagerkvist scriveva: «Che senso ha la vita umana? E che senso ha avuto la mia? Perché ho dovuto vagare sotto le stelle? Per interrogare invano. E tuttavia è la sola cosa per cui valga la pena interrogare. Tutto il resto sono domande indifferenti rispetto a questa sola. Perché esisto? Perché sono vissuto?». In questa semplice e irrisolta domanda, variamente modulata, si racchiude l’intera opera dell’autore svedese oscillante di volta in volta tra scetticismo e incredulità da un lato e volontà romantica di assoluto dall’altro. E la sua poesia ha un tono esistenzialistico che si pone a metà strada tra l’esistenzialismo ateo dei Camus e dei Sartre e quello religioso degli Jaspers e dei Marcel, ed è forse affine, più di quanto sembri, alla prima fase esistenzialista della filosofia di Heidegger (non rappresenta forse Barabba l’ente che si pone la domanda fondamentale sul senso dell’essere senza trovare una risposta?). La sua poesia è tutta un’invocazione a un Dio, da cui si attende con ardore, ma invano, un segno, a un Dio che si teme non possa rispondere o, peggio, si paventa che sia soltanto un’illusione dell’uomo. Non a caso, lo scrittore svedese si definì, con un efficace ossimoro, un credente senza fede. Scrive il suo traduttore e curatore Franco Perrelli: «Lo scenario del pellegrinaggio dell’uomo che cerca il suo Dio e Dio che cerca le sue creature è il cosmo, l’ordine meraviglioso delle cose e insieme la loro apparente indifferenza, i silenzi, le desolazioni, la solitudine delle stelle, dei pianeti, della terra, […] ciò che colora questi paesaggi è l’interrogazione e l’ansia, che riescono talvolta ad accendersi in provvisoria quanto intensa preghiera». Riportiamo una delle poesie-preghiere più significative del poeta svedese: «Tu che esistevi prima dei monti e delle nubi, prima del mare e dei venti. Tu il cui inizio è prima dell’inizio di ogni cosa e la cui gioia e dolore sono più antichi delle stelle. Tu che eternamente giovane vagasti sopra le vie lattee e attraverso le grandi tenebre fra di esse. Tu che eri solo prima della solitudine e il cui cuore era colmo di angoscia molto prima del cuore degli uomini – non mi dimenticare. Ma come potresti tu ricordarmi. Come potrebbe il mare ricordare la conchiglia nella quale una volta mormorava». All’interrogazione dell’uomo risponde il silenzio, la solitudine, il deserto. Preziosa è comunque l’inquietudine.
Morte: Il suo silenzio non ti parla?». E Lagerkvist a sua volta si confida tra un sussurro e un grido: «Io volevo conoscere ma potei solo interrogare, io volevo la luce ma potei solo bruciare. Aspiravo all’immensità e potei solo vivere. Mi rammaricai. Ma nessuno capì cosa intendessi.» In uno dei Quaderni di appunti risalenti agli anni ’40 del Novecento Lagerkvist scriveva: «Che senso ha la vita umana? E che senso ha avuto la mia? Perché ho dovuto vagare sotto le stelle? Per interrogare invano. E tuttavia è la sola cosa per cui valga la pena interrogare. Tutto il resto sono domande indifferenti rispetto a questa sola. Perché esisto? Perché sono vissuto?». In questa semplice e irrisolta domanda, variamente modulata, si racchiude l’intera opera dell’autore svedese oscillante di volta in volta tra scetticismo e incredulità da un lato e volontà romantica di assoluto dall’altro. E la sua poesia ha un tono esistenzialistico che si pone a metà strada tra l’esistenzialismo ateo dei Camus e dei Sartre e quello religioso degli Jaspers e dei Marcel, ed è forse affine, più di quanto sembri, alla prima fase esistenzialista della filosofia di Heidegger (non rappresenta forse Barabba l’ente che si pone la domanda fondamentale sul senso dell’essere senza trovare una risposta?). La sua poesia è tutta un’invocazione a un Dio, da cui si attende con ardore, ma invano, un segno, a un Dio che si teme non possa rispondere o, peggio, si paventa che sia soltanto un’illusione dell’uomo. Non a caso, lo scrittore svedese si definì, con un efficace ossimoro, un credente senza fede. Scrive il suo traduttore e curatore Franco Perrelli: «Lo scenario del pellegrinaggio dell’uomo che cerca il suo Dio e Dio che cerca le sue creature è il cosmo, l’ordine meraviglioso delle cose e insieme la loro apparente indifferenza, i silenzi, le desolazioni, la solitudine delle stelle, dei pianeti, della terra, […] ciò che colora questi paesaggi è l’interrogazione e l’ansia, che riescono talvolta ad accendersi in provvisoria quanto intensa preghiera». Riportiamo una delle poesie-preghiere più significative del poeta svedese: «Tu che esistevi prima dei monti e delle nubi, prima del mare e dei venti. Tu il cui inizio è prima dell’inizio di ogni cosa e la cui gioia e dolore sono più antichi delle stelle. Tu che eternamente giovane vagasti sopra le vie lattee e attraverso le grandi tenebre fra di esse. Tu che eri solo prima della solitudine e il cui cuore era colmo di angoscia molto prima del cuore degli uomini – non mi dimenticare. Ma come potresti tu ricordarmi. Come potrebbe il mare ricordare la conchiglia nella quale una volta mormorava». All’interrogazione dell’uomo risponde il silenzio, la solitudine, il deserto. Preziosa è comunque l’inquietudine.