La TV orale dei Cunti siciliani
di Italo Spada
La “fiaba”, nella Sicilia della mia infanzia, si chiamava “u CUNTU” e aveva lo stesso compito di quello che, in epoca televisiva, diventeranno la TV DEI RAGAZZI e CAROSELLO.
A seconda di quando e dove il cuntu veniva raccontato, si mutava in intrattenimento, lezione, Buonanotte.
Le sale erano sostanzialmente due. Tutto dipendeva dalla stagione:
In estate si stava nelle arene dei cortili o dei vicoli (le vanedde), seduti per terra o sui gradini della case (i pisola).
In inverno ci si chiudeva dentro casa e, quasi sempre, con i piedini sul braciere (la conca).
A far da narratori/proiezionisti provvedevano quasi sempre i nonni.
Era a loro che veniva fatta la richiesta: «Mu cunti, ‘nfattu?» (Me la racconti una fiaba?)
Quasi sempre i cunti diventavano due, tre, quattro… Fino a quando non arrivava il suono del gong: «L’ultimo e a letto.»
L’incipit era sempre costituito dalla stessa formula, così strutturata: un attacco, una domanda, la risposta, l’invito alla pazienza e l’Ok.
Ovvero:
Attacco: C’era na vota…
Domanda: Cu c’era?
Risposta: C’era na vecchia cca ciculattera. Ogni tantu dava ‘npuntu…
OK: Aspittati ca ora ba cuntu.
Ho dovuto attendere un bel po’ di anni per capire il motivo per il quale la vecchia che narrava era sempre con la ciculattera e perché, ogni tanto, dava un punto.
La ciculattera (cioccolatiera) era la scatola di latta contenente i dolci che, una volta svuotata, veniva riutilizzata come contenitore di aghi, ditali, fili…
La vecchia dell’incipit narrava il cuntu ma non smetteva di cucire. Un punto di cucitura ogni tanto, tra un cuntu e l’altro, quasi a voler sottolineare che i chiàcchiri su chiàcchiri, ma u putiàru voli i pìcciuli.
Erano storie quasi sempre con finale positivo e la formula di chiusura, se da una parte precisava la gioia e la felicità dei personaggi-protagonisti, dall’altra sottolineava la soddisfazione di chi aveva ascoltato che si ritrovava con l’acquolina in bocca: «Loro restarono felici e contenti e noi con la saliva tra i denti. (Iddi arristaru filici e cuntenti e nuatri ca sputazza ne denti!»
Quasi mai si trattava di saghe interminabili.
La preferenza andava a cunti di breve durata (corto e medio metraggi), narrati in dialetto e arricchiti con dialoghi, con filastrocche, finali positivi e consolatorie.
Se proprio si sceglieva il filmone, la narrazione procedeva a puntate e con la tecnica di Sharazade nelle “Mille e una notte”: interrompere il finale (Il resto a domani), condizionarlo al comportamento (e solo se vi comportate bene!), riprenderlo il giorno dopo, ultimarlo, iniziare un nuovo episodio, narrare, interrompere ancora.
“Le mille e una notte” non era il solo pozzo dal quale, probabilmente senza saperlo, attingevano i narratori parlando di Aladino e di Alì Babà. Si aggiungano, le fiabe siciliane del Pitrè,Lo cuntu di li cunti di Basile, la ricchezza della tradizione orale; come dire una miniera inesauribile dove calare il secchio della fantasia.
Ai personaggi classici di tutte le letterature (re, regine, maghi, fate, streghe, giganti, nani…), facevano riscontro quelli popolari: gente semplice, contadini, pescatori, sciocchi…
Su tutti, almeno nel quartiere della mia infanzia, c’era Giufà, il furbo sciocco, grande di fuori e bambino dentro. Era lui che deteneva il primato dell’audience.
Solo da grande ho saputo che le sue storie – pur con qualche ritocco del suo nome (Giuha, Giucca, o altro) – erano approdate in Sicilia dopo aver fatto il giro del mondo: Paesi Arabi, Marocco, Nord Africa, Toscana…
Ne combinava di tutti i colori, era sempre in mezzo a i pasticci, pigliava tante botte, ma ogni tanto riusciva a farla franca e a prendere in giro gli altri.
Dalla ciculattera della mia infanzia vengono fuori, ogni tanto, le sue “interpretazioni” alla lettera delle raccomandazioni della mamma e il suo eroico salvataggio della luna caduta nel pozzo (ripreso, con molta probabilità da Pirandello, in Ciaula e la luna).
Come conclusione di questo mio intervento, mi piacerebbe raccontarne almeno uno. Vorrei farlo in siciliano, ma sono ben cosciente che dovrei interrompere più volte la narrazione per tradurre parole e frasi.
Raccontare in italiano, però, significa sminuire la ricchezza del dialetto.
E allora, come fa Pitrè, scelgo un misto: siculo italiano.
Pronti, via! Buio in sala e via con la fantasia.
Giufà e i ceci
Un giorno la matri di Giufà, uscendo per andare a messa, gli disse:
– Giufà iu staiu niscennu. Fra un po’ metti due ciciri in pentola e così al mio ritorno siamo pronti per mangiare.
Uscita la mamma, Giufà fece quello che la matri gli aveva detto.
Quando la matri tornò a casa vide che la pentola dell’acqua era sul fuoco e bolliva. Alzando il coperchio, però, restò di stucco non vedendo i ceci nella pentola.
– Giufà, – gli disse – ma non ti avevo detto di mettere i ciciri in pentola?
– L’ho fatto ma’.
– Ma non c’è niente!
– E che ne sacciu. Io ho fatto come mi hai detto. Ne ho messi due, ma uno l’ho assaggiato per vedere se erano cotti e l’altro per vedere se ci voleva altro sale.
La mamma di Giufà, allora, prese il cucchiaio di legno e gliene suonò di santa ragione[1].
Ci sono domande che non potrò più fare. Non perché mi sia venuta meno la voglia di sapere, ma solo perché i diretti interessati non ci sono più.
Per esempio, vorrei chiedere a quegli educatori che ci castigavano quando sentivano le nostre espressioni dialettali: «Perché? Perché quelle bacchettate, l’urlo isterico del “Parla in italiano!” e la gogna del “Vai dietro la lavagna”?»
«Se volete attraversare lo stretto – ci dicevano – imparate l’italiano.»
Poteva anche essere un buon motivo, ma per par condicio avrebbero anche dovuto raccomandare a coloro che sbarcavano a Messina di imparare il siciliano. Ogni tanto qualcuno glielo faceva notare, ma quelli erano anni in cui non si rispondeva ai più grandi senza rischiare timpulate e scuppuluni. Ci capivano solo i nonni che, pur essendo analfabeti, riversavano su di noi con i cunti un prezioso bagaglio dialettale di motti e proverbi.
Il ritornello era una exusatio non petita: «I tempi cambiano e bisogna aggiornarsi. Il dialetto appartiene al passato e non si addice a chi ha un futuro davanti a sé.»
Allora avevo letto poco ed ero convinto che “a megghiu parola è chidda ca non si dici”, ma oggi, magari per avere solo la soddisfazione di vedere la reazione dei maestri, tirerei in ballo una frase dell’architetto accademico cinese Wang Shu che ha detto: “Perdere il passato significa perdere il futuro”.
Sono cresciuto. Mi sono interessato di TV e di Cinema, ho scritto una marea di recensioni, eppure…
Eppure ogni tanto mi viene la nostalgia dei cunti dei miei nonni.
Allora vado nella soffitta dei ricordi, metto i piedini sulla conca e mi collego con il canale della mia infanzia.
[1] Giufà e la porta
Un giorno la matri di Giufà, uscendo per andare a messa, gli disse:
– Giufà iu staiu niscennu. Fra un po’ tìrati a porta e vieni anche tu.
Dopo un po’ che era uscita la mamma, Giufà fece quello che la matri gli aveva detto. Scippau la porta, se la caricò sulle spalle e andò in chiesa.
Quando sua madre lo vide arrivare in chiesa con la porta sulle spalle gli disse:
«Ma chi facisti?»
«Quello che mi hai detto. Scippai a porta e me la tirai.»
«Ma si babbu! Andiamo a casa e ni facemu i cunti, sceccu ca non sei altro!”
Giufà e la luna
Giufà una notte, passando vicino ad un pozzo, vide la luna riflessa nell’acqua.
Pensando che fosse caduta dentro decise di salvarla.
Prese un secchio lo legò ad una corda e lo buttò nel pozzo.
Quando l’acqua fu ferma e vide la luna riflessa nel secchio cominciò a tirare con tutta la sua forza.
Il secchio, salendo rimase, però, impigliato nelle parete del pozzo. Allora Giufà si mise a tirare ancora con più forza e tirando, tirando spezzò la corda e finì a gambe all’aria e cadde a terra.
Alzando gli occhi verso l’alto, per cercare un appiglio per rialzarsi, vide nel cielo la luna.
La sua soddisfazione fu grande e disse a se stesso ad alta voce:
– Sono caduto per terra e mi sono un po’ ammaccato, ma, in compenso, ho salvato la luna dall’annegamento!
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