Letteratura e Cinema. Verismo e Neorealismo in Tosca dei gatti di Gina Lagorio.
di Italo Spada
Avevo letto Tosca dei gatti molti anni fa, quando vinse il “Premio Viareggio” (1984). Sarò sincero: non mi aveva colpito più di tanto.
Nessuna meraviglia se, rileggendolo adesso, cambio giudizio.
Si sa, infatti, che leggere un libro è come intraprendere un viaggio. Il risultato non dipende solo dalla bellezza del luogo visitato, ma anche (se non soprattutto) dal momento in cui si visita, dalle persone che ci accompagnano, dalla disposizione d’animo, dalla cultura che possediamo, dagli incontri che facciamo…
Allora non conoscevo la signora Teresa. Oggi sì. Per questo, probabilmente, ho voluto rileggere il romanzo della Lagorio.
Chi è Teresa? Una donna anziana che vive nel mio condominio e passa le sue giornate prendendosi cura dei gatti che si radunano nel giardino. Li chiama per nome, dà loro da mangiare, se li trascina dietro. Qualcuno la chiama “gattara” e dice che “non ci sta con la testa” non solo perché si imbelletta come una ragazzina, ma anche perché le sente fare discorsi ad alta voce come se non avesse davanti agli occhi animali, ma persone in carne ed ossa. Esattamente come Tosca. La Tosca della Lagorio.
Siamo in una località balneare ligure. È qui che “una grande bambina segnata dagli anni, una donna non ancora del tutto privata della grazia infantile” vive facendo la portinaia di uno stabile che si anima solo nei mesi estivi. È rimasta vedova, ha avuto una relazione che ha dovuto interrompere perché l’uomo era sposato e ha riversato tutto il suo amore sui gatti. Il rapporto con i paesani non è idilliaco e Tosca diventa vittima di ritorsioni, furtarelli e vendette. La sofferenza maggiore la prova quando le avvelenano Miciamore, il gatto preferito. Una ventata di ottimismo le arriva l’estate in cui due inquilini (il giornalista Gigi e la sua compagna Tonì) le offrono quell’amicizia che credeva definitivamente perduta. È solo il canto del cigno. Quando le arriva lo sfratto dalla casa in affitto che occupava in città, crolla e pur sapendo di correre un grosso pericolo con l’enfisema che non le dà tregua, trova rifugio nell’alcool e nel fumo. «Fu l’esattore del gas che diede l’allarme il mattino. I gatti in casa urlavano con miagolii che gli avevano fatto rizzare i capelli. Andò a chiamare il messo comunale, insieme forzarono la serratura. La televisione trasmetteva un fumetto per bambini, Tosca era seduta sulla poltrona, un lieve sorriso disegnato sulla bocca semiaperta, la testa appena inclinata sorretta dallo schienale.»
Non ci sono colpi di scena in questo romanzo, ma solo delicati eventi descritti alternando due punti di vista: quello della protagonista e quello di Gigi che, da giornalista enologo, vorrebbe diventare romanziere verista, spiando e sfruttando il comportamento di Tosca.
La domanda è quella che è stata sempre argomento di lunghe dissertazioni: si può, come sostenevano i veristi, rimanere del tutto estranei quando si narra una storia?
Il verismo sosteneva che l’autore deve “fotografare” la realtà, descrivere fatti e personaggi “così come sono”, rimanere fuori della storia e “sparire” agli occhi del lettore.
Facile a dirsi. In realtà, sappiamo bene che nemmeno la fotografia ritrae la realtà in modo del tutto oggettivo. L’inquadratura parla, la luce e la disposizione della macchina condizionano, la distanza e la scenografia alterano il messaggio.
Gigi riconosce che non può cambiare niente in una storia che non gli appartiene, che sta facendo violenza perché ha visto la tragedia dove c’è la commedia, che Tosca è “la sola legittima tessitrice” della sua vita… e abbandona l’idea di scrivere il romanzo.
E Gina Lagorio?
Con un intelligente gioco letterario fa di Gigi il suo alter ego ed entra nella vicenda precisando che, tenendo lontana la tentazione di inventare, vuole solo rendere testimonianza.[1]
Sappiamo che la Lagorio ha passato più di un’estate nella riviera ligure e il sospetto che la storia di Tosca sia realmente accaduta è più che fondato.
Come dire: Tosca personaggio vero e reale. Due termini che rimandano alla letteratura e al cinema. Per questo non sembri azzardato accostarla a due altri personaggi: uno letterario, l’altro filmico.
Il personaggio letterario è Nedda, la protagonista dell’omonima novella di Verga.
Tosca è una Nedda solo apparentemente più fortunata. In comune hanno la perdita del marito, la malattia, la solitudine. E se Nedda trova nella sua bambina l’unica ragione di vivere, Tosca la trova in Miciamore. Si dirà che c’è un bella differenza tra una bambina e un gatto. Nessun dubbio, ma andatelo a dire a tutte le Tosche che conoscete o incontrate. Le risposte saranno sempre: «Gli animali sono più affezionati degli uomini», «Gli voglio bene come se fosse mio figlio», «Chi non l’ha provato non può capire», «Senza il mio gatto (o cane) non so più vivere».
E, infatti, come Nedda senza la sua bambina, anche Tosca smette di vivere senza Miciamore.
Dal verismo al neorealismo. Tra i tanti personaggi che si stagliano in quella che fu tra le più belle stagioni del cinema italiano spicca Umberto D, il protagonista del film di Vittoria De Sica.
Tosca è un Umberto D in gonnella.
Anche lei subisce l’umiliazione dello sfratto, entra in depressione, trova negli animali domestici (cane o gatto che siano) l’affetto che gli è stato negato. E se il cane si è ritagliato ruoli di primo piano nella Bibbia (da quello che accompagna Tobia durante il viaggio con l’arcangelo Raffaele, a quello che lecca le ferite di Lazzaro nella parabola del ricco Epulone), il gatto non è da meno nelle credenze dell’antichità egizia dove era considerato un sorta di divinità.
De Sica realizza il suo film nel 1952. La Lagorio scrive il suo romanzo 32 anni dopo (1984). L’Italia non è più la stessa, ma i due personaggi possono benissimo darsi la mano, perché la solitudine, l’indigenza, la malattia vanno oltre i periodi storici. Se fosse ancora vivo Zavattini ci ricorderebbe che non è poi così difficile buttare giù idee, soggetti e sceneggiature per realizzare film neorealisti. Basta osservare le persone che si incontrano, “pedinarle”, “fotografarle”.
Torniamo ad inquadrare Tosca e operiamo su di lei quella che nella cinematografia si chiama dissolvenza. Non a chiudere o ad aprire, ma incrociata.
Stacco netto.
Si dissolve la Tosca della Lagorio e, al suo posto, appare la verista Nedda di Verga.
Ancora uno stacco netto,
Ritorna Tosca, si dissolve e questa volta, al suo posto, appare il neorealista Umberto D di De Sica.
Sappiamo che “non c’è due senza tre”. E allora terzo stacco netto,
Riappare Tosca, si dissolve e… ma chi è? Mi sembra di conoscerla.
Ma certamente: è la neo-neorealista signora Teresa del mio condominio.
Che meraviglia questa incredibile potenza delle parole e delle immagini!
[1]«…Non devo cedere alla tentazione di inventare, anziché rendere testimonianza. Quelle di Tosca sono parole, il mio è un balbettio: qui sta il punto che divide il non-reale, l’immaginato, dal reale osservato con scrupolo di fedeltà. Che è poi la mia presunzione di narratore verista. Come se non sapessi che ogni verità ha due facce, tre, mille. In nome della verità si sono compiuti i massacri più crudeli. Quali sono i colori veri del mondo? Tosca è per me colorata di tutte le tinte della mia passione di rappresentarla: attraverso il mio spettro è rosa , grigia, azzurra, secondo i momenti e gli umori, suoi e miei, Ma i colori veri sono soltanto quelli di chi ce li ha messi, addosso a noi e alle cose.»
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