Broker – Le buone stelle
Regia: Kore’eda Hirokazu
Con: Song Kang-ho, Gang Dong-won, Bae Doo-na, Lee Joo-young, IU.
Corea del Sud, 2022. Durata: 129 ’
di Italo Spada
Traduciamo: Broker sta per Speculatore; baby box è un modo dolce di chiamare la ruota dove i genitori coreani possono abbandonare i figli indesiderati. Troppo poco per chiarire quello che il regista giapponese Hirokazu Kore’eda racconta in questo film, premiato a Cannes 2022. Ed è anche troppo poco quello che, sull’argomento, si può scrivere in una recensione; non solo perché lo spazio è ridotto, ma soprattutto perché la comunicazione visiva provoca sensazioni non sempre traducibili con parole appropriate. Ci proviamo comunque, ben coscienti di sfiorare appena la sufficienza.
La trama.
Notte di pioggia. A Busan, in Corea, una giovane donna si avvicina alla baby box di una chiesa-famiglia, deposita per terra il bimbo ancora in fasce, si allontana. «Woo-sung, mi dispiace, tornerò a prenderti», ha scritto sul biglietto che gli ha lasciato. Sa bene che sarà difficile mantenere fede a questa promessa, ma la sua speranza è che la polizia lo prelevi per affidarlo alle cure di un ospedale, un orfanotrofio, una istituzione benefica. Non conosciamo ancora il motivo di questo abbandono, ma dalla tristezza che traspare dal suo volto supponiamo che a farle compiere quel gesto sia stato un evento drammatico. Quando la donna va via, scopriamo che qualcuno era già sul posto: due poliziotte che, dopo aver provveduto a sistemare il neonato nel baby-box, attendono l’arrivo di qualche ladro di bambini (i broker, per l’appunto, che speculano su queste tragedie rivendendo le piccole creature al migliore offerente) per individuarlo, seguirlo, coglierlo in flagrante e assicurarlo alla giustizia. Non devono attendere molto; la “trappola” funziona e inizia il pedinamento.
Alt. Si consiglia di astenersi da affrettati giudizi e condanne. Non giudichiamo e non saremo giudicati.
I fili si intrecciano e, di sequenza in sequenza, scopriremo che dietro i diversi comportamenti dei personaggi ci sono storie personali e avvenimenti che, anche se non giustificano, spiegano. Sapremo che la ragazza si chiama So-yung e che, prima di diventare snaturata madre, è stata costretta a fare la prostituta, è rimasta incinta, non ha voluto abortire, ha ucciso l’uomo che voleva disfarsi del suo bambino, ha il cuore a pezzi e ha un unico desiderio: “sognare che la pioggia le lavi il passato”. Sogno mai realizzato che si infrange ogni volta che, aprendo gli occhi, si rende conto che la sua vita non è cambiata. Sapremo anche che i broker sono due, si chiamano Sang-hyun e Dong-soo, sbarcano il lunario in una lavanderia, hanno anche loro sofferto la solitudine e il distacco familiare, subiscono ricatti dai malviventi locali, cercano di racimolare denaro con il contrabbando di bambini abbandonati che giudicano meno infame dell’abbandono dei genitori. Sapremo, infine, che persino le due poliziotte hanno un cuore che batte sotto le loro divise. Insomma, i cattivi bisogna cercarli altrove: tra i ricchi che credono di poter comprare tutto, tra le mogli tradite che cercano vendetta, tra i malavitosi che chiedono il pizzo e minacciano.
Passano i minuti e il film si colora di giallo diventando un road movie, con inseguiti e inseguitori, soste e pedinamenti, ostilità e complicità. Vernice che non riesce ad oscurare del tutto le vere domande: Quando si parla della famiglia che cosa si intende? Chi abbandona il proprio figlio è sempre un mostro? La ruota incentiva o no gli abbandoni dei bambini? Esistono broker di buone azioni? Le leggi per le adozioni vanno riviste a seconda dei casi o è meglio essere inflessibili a costo di lasciare i bambini negli orfanotrofi?
Interrogativi che fanno accostare lo scalcinato furgoncino – sul quale i broker Sang-hyun e Dong-soo, la ragazza madre So-yung e il piccolo Woo-sung (più un simpatico e intelligentissimo monello fuggito dalla casa famiglia) intraprendono il loro viaggio – alla misera abitazione di Un affare di famiglia, Palma d’Oro a Cannes nel 2018. Altri richiami tra i due film inducono a credere che non siamo di fronte alla casualità: la coppia di speculatori, la lavanderia, la ragazza pornostar, il ragazzino abbandonato dai genitori, il rapimento di una bambina, la legge che non ammette famiglie senza vincoli di sangue, l’autoaccusa, il carcere. Il sospetto (fondato) è che l’uomo Kore’eda nutra un particolare interesse per i problemi legati alla famiglia e, da cineasta, voglia suggerire agli spettatori di ringraziare il cielo per la vita che ci è stata data, di guardare in alto e di volare anche quando tutto sembra crollare. La conferma arriva da due espressioni che, intenzionalmente, mette in bocca a So-yung, principale vittima tra le vittime che il destino ha fatto incontrare. La prima è un ringraziamento ripetuto più volte cambiando solo i nomi dei “compagni di viaggio” che si stanno rivelando un vero nucleo familiare: «Grazie per essere venuto al mondo.» La seconda è una lezione impartita al ragazzino che, fuggito dall’orfanotrofio è diventato “figlio acquisito” e le chiede il significato del nome che ha dato al piccolo: «Woo – gli dice – vuol dire ali e Yung sta per stelle.»
Bisogna dare atto al regista che ha saputo trattare con tenerezza un tema così delicato, facendo presa anche sulla bravura degli interpreti. Dopo due ore di apnea, si esce dalla sala con le immagini di un finale poetico e rilassante che rafforza la convinzione dell’importanza della presenza dei bambini nella vita personale e familiare.
Peccato che la realtà ci riconduca con i piedi per terra e metta a dura prova quel “non giudicare” che ci eravamo imposti.
Come mai e perché?
Perché, oltre ad essere spettatori, siamo anche lettori di quotidiani e leggiamo: «Il folle piano: “Ora uccido il bimbo, così impara a dormire”» (Il Messaggero, 3 febbraio 2023); «Trasforma il figlio di nove anni in un bersaglio per la balestra» (Corriere della Sera, 7 febbraio 2023); «In Italia, ogni due settimane, un genitore ha ucciso il figlio» (Agi, Cronaca, 15 giugno 2022).
I particolari? No, no. Meglio lasciare a chi sta leggendo la facoltà di angosciarsi o meno, più di quanto non dicano i soli titoli.
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