La stranezza
Regia: Roberto Andò
Con: T. Servillo, S. Ficarra, V. Picone, R, Carpentieri, D. Finocchiaro, L. Lo Cascio, R. Lisma, G. Ranzi, G. Andò, T, Musumeci, A. Quattrocchi, F. Russo, F. Luna
Italia, 2022. Durata: 103’
di Italo Spada
Non me l’hanno prescritto psicologi e psichiatri, ma l’ho fatto lo stesso. Così, per istinto, mentre vedevo “La stranezza” di Roberto Andò è scattato un personale test di Rorschach.
Non è la prima volta che mi accade e da tempo sostengo che nelle frasi e nelle immagini di ciò che si legge e si vede non ci sono solo i pensieri e le idee degli autori, ma anche le esperienze, i ricordi, la storia, il vissuto di chi legge e/o di chi guarda. Come in questo film, dove gli spettatori hanno l’imbarazzo della scelta nel focalizzare il loro interesse sulla sola trama, sulle esplicite citazioni letterarie, sulle notizie biografiche, sulla bravura degli attori, sull’abbattimento della quarta parete, sulle credenze popolari, sugli usi e i costumi…
Due i fatti storicamente accertati: il viaggio di Luigi Pirandello in Sicilia – Girgenti e Catania – per festeggiare gli 80 anni dell’amico Giovanni Verga (1920) e la contestata prima de “I sei personaggi in cerca d’autore” al teatro Valle di Roma (1921). In mezzo, l’incontro del drammaturgo con due becchini, Nofrio e Bastiano, attori dilettanti-professionisti alle prese con le prove e con la rappresentazione del dramma comico “La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu” messo in scena da una sgangherata compagnia di paese, le vicissitudini per dare degna sepoltura a un’anziana balia, i traffici illegali di impiegati comunali addetti all’assegnazione dei posti nel cimitero, la costante preoccupazione di Pirandello per lo stato mentale della moglie Antonietta, il tormento interiore (la stranezza) che non gli dà pace, il rapporto e la crisi creativa con alcuni personaggi, già definiti o in attesa di “udienza”.
Conviene iniziare proprio dai personaggi che vediamo apparire (e sparire) all’inizio del film. Sono sullo stesso treno che sta portando Pirandello in Sicilia e, in osservanza al detto popolare “Buonasorte e malasorte dove vai te la porti”, sembrano non voler lasciare in pace il loro autore che si è appisolato e ha scritto su un foglio di carta: «Sono sospese le udienze a tutti i personaggi.»
Non è una sequenza superflua, ma un richiamo all’incipit de “La tragedia di un personaggio” che suona così: «È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici.»
Il consiglio è quello di ripescare questa novella, leggerla e rileggerla, perché costituisce la vera chiave di interpretazione di ciò che narra Andò. L’autore è una “madre che rimane incinta e partorisce i suoi personaggi”: una volta ideati, però, li deve far nascere, giacché nulla è più angosciante del rimanere sospesi tra l’essere o il non essere. Il “parto artistico” è vita che si protrae oltre la morte; il Dottor Fileno lo spiffera in faccia a Pirandello e, indirettamente, a tutti gli autori: «Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più!»
Si capisce, allora, il motivo per il quale nel film fanno capolino personaggi di altre novelle: Male di luna, Lumie di Sicilia, L’illustre estinto, La giara e, soprattutto, Il figlio cambiato che, nel 1934, diventerà testo teatrale con il titolo di La favola del figlio cambiato.
È a questo testo che bisogna risalire per individuare la stranezza che per Pirandello diventa vera ossessione. Egli, infatti, era convinto che, proprio come era accaduto alla signora Longo della novella, le Donne avessero giocato un brutto tiro anche a sua madre. Per eliminare ogni dubbio non esisteva ancora il ricorso al DNA e depressione e angoscia non sparivano con il passare degli anni. Ma chi erano (o chi sono) le Donne (o Femmine di fuori)?
Streghe che, nella credenza popolare, si divertivano a fare dispetti; tra questi, quello di scambiare nelle culle i bambini appena nati. Non solo. Nelle notti di vento chiamavano con voci lunghe e lamentose una megera (Maara, Majara, Maciara) che, come la zia Vanna, aveva fama dì essere in misteriosi commerci con loro, la trascinavano con le sue vesti e le sue scarpe, come un fantoccio e le affidavano il compito di fare la messaggera di disgrazie.
Tradizioni e superstizioni che Roberto Andò, con l’apporto degli sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, recupera e utilizza per inserire ciliegine nella torta de La stranezza: frasi dialettali, intrecci amorosi di paesani, consolo per i parenti del caro estinto, scioglilingua in bocca ai bambini, favoritismi e caos nella pubblica amministrazione, presenza del tipico personaggio popolare del Babbu, qui pro quo, sale sparso contro le jatture, pause errate nelle battute (Non ho nessuno scopo e sono felice)…
Materiale a non finire per chiarire quanto si legge nel saggio pirandelliano sull’ Umorismo (1908): la differenza tra comicità e umorismo, tra l’avvertimento del contrario e il sentimento del contrario. Invito a nozze per attori come Toni Servillo e il duo Ficarra/Picone (casuale o studiato l’accostamento alla coppia Franchi/Ingrassia de La giara, episodio del pirandelliano Kaos dei fratelli Taviani?), eccezionali nel rappresentare “il dramma che si nasconde dietro la risata”.
Trattamento a parte merita la sequenza breve ma significativa dell’incontro tra Pirandello e Verga. Il primo aveva iniziato a scrivere le sue opere sotto l’influenza del secondo (e di Capuana) e il passaggio dal verismo al relativismo conoscitivo è tutto nella raccolta Maschere nude e in Così è (se vi pare). Basterebbero questi due titoli per inquadrare nella giusta luce la poetica pirandelliana.
Se Verga invita a fotografare la verità senza alterarla, Pirandello solleva dei dubbi, cercando di far riflettere su ciò che cade continuamente sotto i nostri occhi: gente che non dice quello che pensa, attori che nel palcoscenico della vita recitano parti imposte da copioni esistenziali, maschere indossate e smesse a seconda delle circostanze. Da qui il meraviglioso gioco di parole che accosta la certezza oggettiva (così è) al dubbio soggettivo (se vi pare). La risposta del personaggio velato che appare sulla scena alla fine della commedia – e che viaggia nel film con Pirandello – vale un intero saggio. Ai curiosi che vogliono assolutamente sapere se hanno davanti la figlia della signora Frola o la seconda moglie del signor Ponza, la donna velata risponde senza scoprire il suo volto: «Io sono colei che mi si crede!»
Qualcuno, probabilmente, si è chiesto alla fine del film se Nofrio e Bastiano hanno assistito o no alla prima dei Sei personaggi. Domanda legittima, alla quale Andò, in linea con la poetica pirandelliana della realtà che non esiste e della vita che è una messa in scena teatrale, risponde rinchiudendo i due nel guscio del teatro-prigione e condannandoli alla solitudine e all’incomunicabilità. Manca solo la risata prima del Giù il sipario. Anzi no: c’è anche quella. Basta vedere in faccia la perplessità degli spettatori che escono dal cinema (o dal teatro) e chiudere gli occhi per sentirla con le stesse parole di scherno dello scettico Laudisi: «Ed ecco, signori, come parla la verità! Siete contenti?».
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